Recensione: Hope in Hell

Di Stefano Ricetti - 24 Maggio 2013 - 0:10
Hope in Hell
Band: Anvil
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
Nazione:
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67

Fino all’uscita del pluridecorato, a ragione, film-documentario The Story of Anvil, del quale esiste anche un succoso libro, il gruppo di Steve “Lips” Kudlow e Robb Reiner vive, di fatto, nei soli cuori dei nostalgici tanto da arrivare addirittura a spedire i nuovi lavori su Cd solo a chi ne fa richiesta. In pratica si paga direttamente la band in un clima di autoproduzione d’antan. Operazione che ogni die hard fan dell’Incudine metallico più famoso del globo effettua più che volentieri, invero senza aspettarsi nulla di eclatante dall’ennesimo album dei canadesi ma in fondo in fondo solo per supportare la loro effettiva sopravvivenza. Poi arriva un tizio chiamato Sacha Gervasi, vecchio ultras degli Anvil nel suo periodo adolescenziale, approdato, in una fase nella sua vita di uomo a una discreta carriera in ambito cinematografico, e si inventa di fare un film proprio su di Loro, ossia fra i musicisti più sfortunati della storia del Metallo. Sia ben chiaro, scalognati solamente in termini di carriera mancata, non di certo dal punto di vista musicale e artistico: Metal on Metal e Forged in Fire risiedono nell’Olimpo dell’HM.

Bang! Da quel momento la storia del gruppo cambia, per sempre: fine delle questue per raccogliere i soldi necessari all’incisione del prossimo disco, fine degli stenti per farsi pagare un concerto con davanti sette persone da parte del gestore del bar di turno, fine degli stenti in generale. Se This is Thirteen del 2007 si lascia ascoltare, il successivo album Juggernaut of Justice spacca di brutto, tanto da far pensare, durante l’ascolto, se proprio di Anvil si tratti.

Iniziano a girare i soldi veri e qualcosa si rompe: Glenn “Five” Gyorffy, fedele bass player del combo di Toronto, se ne va, dopo sedici anni di “mazzo tanto” e adorazione dell’Incudine. Come diceva spesso il recentemente scomparso Andreotti, “a pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca”… vuoi vedere che l’accoppiata più solida della storia dell’HM Kudlow/Reiner ha improvvisamente deciso di spartirsi la “torta” in parti fortemente disuguali e quindi, di fatto, ha messo il devoto Glenn nelle condizioni di togliersi di mezzo?  Nulla di certo in quanto scritto poc’anzi, la verità-vera la sanno solo gli Anvil, trattasi di semplice chiacchiericcio riportato nato fra fan di vecchia data della band, gente che li ha sostenuti nei tempi di magra e che quindi tiene a cuore i destini della band. Magari Gyoffry s’è semplicemente stufato di non essere considerato piuttosto che, come asserisce, “me ne sono uscito perché volevo crescere come musicista e negli Anvil ciò non era possibile”. Già, è credibilissimo: uno si alza alla mattina – la leggenda vuole che durante gli anni duri dell’Incudine Glenn Five vivesse in un garage per mancanza cronica di denaro liquido – e realizza che, dopo più di tre lustri, nella band nella quale suona, che non c’è spazio per la propria crescita artistica…

Sia quel che sia, gli altri due imbragano tale Sal Italiano al basso, un tipo meno ingombrante di Five che fa quello che deve fare e soprattutto non rompe le scatole. Sarà per questo o chissà quale altro motivo ma fatto sta che il nuovissimo Hope in Hell risulta il classico lavoro fatto uscire perché deve uscire e non di certo in quanto figlio di un parto artistico di spessore.

Il tipico disco di maniera, quindi, carico però di quella classe marchiata Anvil che comunque riesce sempre in qualche modo a trovare la quadra. All’interno dell’impianto improntato alla usuale coerenza, accanto a pezzi che confermano il cliché dell’Anvil-song per antonomasia (Hope in Hell, Flying, Shut the Fuck Up) trovano il giusto e doveroso spazio autentici inni alla velocità: Eat your Words e The Fight is Never Won, con quest’ultima davvero  buona.  

Viceversa è imbarazzante il riff scippato goliardicamente a Smoke on the Water in Through with You, così come Pay the Toll, Call of DutyTime Shows no Mercy e Mankind Machine risultano essere episodi poco illuminati. Probabilmente il brano migliore di tutto il lotto è Badass Rock’N’Roll, non senza una certa sorpresa, proprio perché un Incudine, per peso e struttura, non è mai stato a proprio agio nel lanciarsi su di una mattonella a  ballare del fottuto R’n’R…

Per chiudere, nonostante l’imbarazzante piatteume di alcune canzoni contenute in questo Hope in Hell (le due ghost track in fondo non mutano il giudizio di una virgola), invero frammiste a qualche impennata degna del Loro blasone, lunga vita agli Anvil, gente che non ha mai mollato il mazzo anche quando pareva pregare il mondo che ruotava intorno alla band affinché “non facesse l’onda”

 

Stefano “Steven Rich” Ricetti

 

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