Recensione: How Do We Want To Live?

Di Matteo Bevilacqua - 27 Agosto 2020 - 14:42

Fin dal loro esordio nel 2006, i teutonici post-rocker Long Distance Calling sono stati estremamente attivi e prolifici. A due anni dal discreto Boundless e arrivati al settimo album in studio (il terzo per InsideOut), la band ha quindi potuto godere di un crescente interesse critico e commerciale. Con How Do We Want To Live i nostri si cimentano nell’affrontare un concept che sicuramente affonda le radici nell’attualità dei tempi confusi e incostanti che stiamo vivendo, ossia il crescente e invadente rapporto dell’uomo con le intelligenze artificiali. Il tutto è sapientemente confezionato da un artwork dallo spiccato gusto sci-fi anni ‘70.

Si comincia con una suite divisa in due parti. “Curiosity (Part 1)” è in realtà un lungo monologo dove la voce narrante è caratterizzata da un entusiasmo finto, artificiale. Il sottofondo curato da un synth retrò si sposa perfettamente con l’artwork. Con “Curiosity (Part 2)” viene introdotta una batteria cadenzata seguita da delle gustose chitarre in slide che esplodono alzando l’asticella delle aspettative per ciò che verrà. A questo punto, come per un giocattolo che si rompe ancora prima di essere scartato, le aspettative sprofondano improvvisamente: l’assolo di tipico gusto gilmouriano è mal eseguito, amatoriale, già passato nel dimenticatoio quando veniamo forzatamente portati alla sezione successiva. Il brano non prende il volo e sembra un’accozzaglia di sezioni incollate tra loro in modo da proporre qualcosa che si allontani dalla solita forma canzone, spacciandola per prog. Non ultimo difetto del pezzo, per ben 4 minuti e mezzo siamo tenuti ad ascoltare l’alternanza di due accordi suonati con una ripetitività ossessiva e noiosa (a scanso di equivoci, ci sono capolavori assoluti costruiti su due accordi, sia nel rock che nell’ ambient più puro, ma “Curiosity” non rientra in nessuno di quei casi). L’inizio di basso e batteria in “Hazard” fa ben sperare in qualcosa di fresco. Purtroppo invece i vari strati di chitarra arpeggiata rimandano nuovamente all’amatoriale: sembra davvero di sentire un demo, salvato quantomeno dall’ottimo suono della batteria. L’esperienza migliora quando ricompare la voce narrante che ci riporta al contesto della distopia sci-fi.

“Voices” ripropone per altri 8 minuti gli stessi due accordi già sentiti con la sola variazione del pattern di synth. A questo punto è davvero difficile trattenere gli sbadigli. Una linea di chitarra plettrata pulita e ben eseguita fa da scheletro ritmico all’intero brano, peccato venga rovinata da una chitarra con un pesante chorus in sottofondo. Fortunatamente al settimo minuto delle belle chitarre distorte creano un crescendo, il momento dinamicamente più forte del disco finora, dove anche i drum fill di Janosch Rathmer ci ricordano che dietro a tutto questa musica robotica abbiamo delle persone in carne ed ossa. È ormai difficile, tuttavia, recuperare l’entusiasmo perduto. “Fail / Opportunity” ripropone nuovamente la stessa struttura armonica questa volta impreziosita da un suadente violoncello. Purtroppo dopo due giri ci si accorge che gli arrangiamenti sono probabilmente stati scritti dalle stesse persone coinvolte nel resto del songwriting, per cui anche la linea melodica del violoncello viene a noia in fretta. Per citare il titolo, si tratta dell’ennesima “opportunità sprecata”.

Forte di un video che raccoglie footage dei primi 3 mesi della pandemia da COVID-19, “Immunity” presenta nuovamente lo stesso giro di accordi per cui la mente dell’ascoltatore inizia a divagare domandandosi a che punto finisca un brano e dove inizi il successivo. L’attenzione ormai svanita subisce uno scossone quando il brano raddoppia il tempo, ma ripiomba nel torpore in quanto la sezione non conduce da nessuna parte se non all’ennesimo copia e incolla privo di carattere. “Sharing Thoughts” ha un bell’inizio inquietante di pianoforte che ricorda in qualche modo gli Anathema. Un po’ di dissonanza finalmente arricchisce il vuoto creato finora. Poi si ripropone lo schema già sentito: un’altra bella linea di chitarra plettrata, un’altra chitarra mediocre carica di chorus nel sottofondo e dei facili riff pentatonici. Verso il finale le tastiere assumono un ruolo importante nel momento del climax e insieme alle chitarre (ancora molto à la Anathema) salvano il brano. Ascoltando “Sharing Thoughts” viene in mente un simile senso di noia percepito con “Voyage 34 dei Porcupine Tree, con la sola differenza che il brano di Wilson è del 1992.

“Beyond Your Limits” parte molto bene. Sarà una coincidenza, ma i momenti più coinvolgenti sono sempre in concomitanza con la voce narrante che ci riporta ai temi del disco. Come un fulmine a ciel sereno, si sente la bella voce di Eric Pulverich dei Kyles Tolone. Che piacere, ecco cosa mancava! Una voce seducente, una linea vocale splendida nella sua semplicità, ottimi backing vocal sull’ottava bassa. In questo caso il fatto di avere una struttura anche banale e monotona non ha importanza, si tratta infatti di una canzone che sta in piedi da sola. A questo punto, “Beyond Your Limits” diventa una pietra di paragone che fa sprofondare ulteriormente il resto del disco, facendo risultare tutti gli altri brani come fossero premix prima della registrazione della voce. “True / Negative” è un bell’intermezzo con una voce robotica e sperimentazioni sonore avanguardistiche, che, nonostante siano monotone ed ostinate, non stancano riportando la nostra mente a vagare nel campo del sci-fi.

Lo spoken conclusivo in “Ashes” è tratto direttamente dal monologo dell’agente Smith in Matrix e tiene incollato alla sedia fino all’inizio del groove elettronico carico di un tappeto di pad con un bel suono di basso distorto. Sempre con la consueta alternanza di accordi e con la chitarra dal chorus marcato (che inquinano il sound generale) sappiamo di essere in dirittura d’arrivo: il mood viene rinfrescato da un bel crescendo, fino a quando il tempo raddoppia e l’atmosfera è arricchita da dei vocal fx e molto delay, con un suono che diventa saturo e avvolgente. In altre circostanze questo brano sarebbe potuto essere un bell’interludio, ma nel nostro caso si tratta di uno dei picchi dell’album che quantomeno ci lascia con un brivido lungo la schiena e un senso di speranza per il prossimo lavoro.

In conclusione – con la piena consapevolezza che nel post-rock i brani strumentali sono all’ordine del giorno – in How Do We Want To Live si sente davvero la mancanza della voce. Senza voler bocciare in tronco la proposta della band tedesca, il suono complessivo per certi versi è anche piacevole, tuttavia è difficile giustificare un disco del genere e comprenderne la funzione ai giorni nostri.  Qui non si sta giudicando lo stile, che anzi mostra degli spunti interessanti per proiettare il post-prog e il post-rock verso nuovi orizzonti, bensì la creatività e il songwriting, completamente inesistenti. L’avvocato del diavolo a questo punto tirerebbe fuori un jolly, affermando che il post-rock contiene in sé elementi tipici del minimalismo postmoderno: purtroppo qui non c’è nulla di geniale, solo il drastico crollo dello standard qualitativo, nonché l’esaurimento delle idee e dell’impellenza espressiva.

 

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