Recensione: How Far to Asgaard

Di - 2 Dicembre 2011 - 0:00
How Far to Asgaard
Band: Týr
Etichetta:
Genere:
Anno: 2002
Nazione:
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79

“How Far to Asgaard”. Un così atipico esordio discografico non è sicuramente semplice da analizzare attraverso poche righe di una recensione. In molti potranno obiettare che proprio adesso, invece, il raccontare del debutto dei Týr risulta più semplice che nel lontano 2002, ora che la band si è fatta conoscere ed apprezzare in giro per il mondo. Resta comunque complicato, oggettivamente complicato, raccontare a chi è già particolarmente avvezzo alle dure sonorità del Viking Metal un album, e un gruppo, che ha spalancato al genere porte talmente poco frequentate ai più – quelle progressive – da far balzare sulle sedie gli appassionati di mezzo mondo. È innegabile che la musica composta del gruppo delle Fær Øer è quanto di più lontano ci sia dalle sonorità a cui ci hanno abituato, nel corso degli anni, gruppi come ad esempio Bathory, Enslaved, Windir o Amon Amarth; ciò nonostante la musica dei Týr riesce a raccontare, anche senza la ruvida cruenza del Death o del Black Metal, degli spaccati più o meno romanzati della vita e della società vikinga.

Così come non tutti i vikinghi erano guerrieri pronti a consacrare agli Dei la propria vita, così anche la musica che ne racconta le gesta non deve per forza risuonare sempre come un canto di guerra. La musica dei Týr risulta essere quindi più accostabile alla quiete, alla vita che scorre lenta e tranquilla nei villaggi della costa, ai cuori pieni di desolante nostalgia verso un amore lasciato o per una terra lontana, piuttosto che per una feroce battaglia o ad un’ascia che rompe, squarciandolo, un elmo nemico. Anche se, ad onor del vero, guerre e battaglie vengono raccontate dal gruppo con l’ausilio di musiche tradizionali come, ad esempio, nella suggestiva “Ormurinn Langi”. Ma di questo ne parleremo ampiamente in seguito.

Apre “Hail To The Hammer”, una delle canzoni più famose del gruppo, oggetto di numerose pubblicazioni come bonus-track nelle seguenti release. Brano dedicato al Dio del tuono Thor e al suo martello Mjöllnir, è caratterizzato da un ritmo piuttosto marziale e solenne che sfocia in un ritornello evocativo e pieno di pathos. Dal figlio, al padre. Dopo l’Ase Thor tocca ad Odino catturare le luci della ribalta. In “Excavation”, il riferimento al padre degli Dei è già piuttosto evidente dalla prima strofa: “What would you give, what would you offer to be given wisdom “ in cui si ripercorre metaforicamente l’auto mutilazione di Odino che, per poter essere iniziato al segreto delle Rune, offre un occhio (conservato nella sacra fonte Mímisbrunnr in cui il saggio Mímir custodisce l’idromele) e si impicca a testa in giù su Ydggrasill, il frassino del mondo. “Excavation” è quindi la canzone del sacrificio, del desiderio di conoscenza che accomuna l’uomo al Dio, entrambi desiderosi di andare oltre lo scorrere del tempo: entrambi desiderosi di vedere. Paradossalmente, per poter ‘vedere’, Odino rinunciò ad un occhio; “Excavation” è anche canzone che sottolinea la profonda paura dell’essere umano posto inerme davanti al futuro e all’ignoto, ma anche di come la strada per il sapere sia disseminata da dolori e sofferenze “… I see finally, visions of what will be my fate, hesitate, it will be too late…when done.”

“The Rune” è forse la canzone dalla matrice progressiva più marcata dell’intero album. Il brano rapisce l’ascoltatore con una perfetta commistione tra musica e parole. Malinconica, come lo è il cuore di chi è costretto a partire e lasciare le propria terra natia, “The Rune” ricalca lo strazio di chi deve abbandonare la propria patria per imbarcarsi in un viaggio verso l’ignoto. Significativa (ma è forse un caso) la similitudine con la vicenda di Eirikr inn Rauda (il rosso) costretto ad abbandonare la Norvegia, assieme al padre Thorvald, in seguito ad un omicidio.

Vere e proprie armi a doppio taglio, le chitarre sono le assolute protagoniste della musica proposta dal gruppo di Runavík le cui note, in certi frangenti, sembrano provenire dalle profondità dell’oceano più nero. Inutile soffermarsi sulle qualità tecniche e compositive del gruppo: siamo d’innanzi a dei musicisti a dir poco perfetti anche se, a dirla tutta, non facili da assimilare in toto dal primo ascolto. La musica dei Týr deve essere ascoltata, capita, metabolizzata con calma. Chi, per assurdo, ne volesse trovare le chiavi interpretative al primo ascolto credo rimarrebbe particolarmente deluso. Inghiottiti dal turbinio del Maelström passiamo attraverso la lenta e cadenzata “Ten Dog” per arrivare alla maestosa “God Of War”. Lentamente, come un drakkar sfiora le onde durante la bonaccia, si arriva alla canzone che porta in sé l’anima più intimamente folk dei Týr: il lungo serpente, “Ormurin Langi” – dal nome dell’imbarcazione di Re Olaf -, brano originariamente scritto nel 1830 da Jens Christian Djurhuus e conosciuto anche come Olaf Trygvasons kvað (La Ballata di Olaf Trygvason). Il brano, nei suoi 86 versi, parla della Battaglia di Svolder in cui Re svedesi, danesi e con il fondamentale contributo di  Eiríkr Hákonarson, attaccarono Re Olaf Trygvason di ritorno in Norvegia. Re Olaf, una volta vistosi sopraffatto proprio dal connazionale Hákonarson, si gettò in mare assieme ai pochi uomini della flotta sopravvissuti agli attacchi dei sovrani.
La storia, edulcorata alla bisogna con qualche sfumatura leggendaria, viene rappresentata magicamente da una canzone in cui le voci si rincorrono durante la narrazione, sublimando in un insieme corale davvero incantevole. Alla lunghissima title-track l’onore di mettere la parola fine a questo egregio esempio di metal farøese. Un album che ha fatto da apripista ad un gruppo non certo osannato e venerato da orde di fan acclamanti, ma di sicuro spessore per tutti i figli di Miðgarðr. Piccola considerazione a margine dell’analisi del disco: “How Far to Asgaard” ha avuto la fortuna di essere rappresentata graficamente, secondo il mio personale gusto estetico, da una delle copertine più belle degli ultimi tempi; un vero capolavoro di luci, sfumature e contrasti di colore.

Per concludere, credo che per raccontare lavori e gruppi come questo, le parole più appropriate siano state proferite (e mi si conceda l’azzardo) da un noto critico gastronomico, in un popolare cartone animato targato Pixar. Ego, questo il nome del critico, cinque anni dopo l’uscita di “How Far to Asgaard ” trovò delle parole che sembrano sintetizzarne perfettamente lo spirito e, laddove ce ne fosse bisogno, a difenderne il coraggioso suono proposto: “…per molti versi la professione di critico è facile: rischiamo molto poco pur approfittando del grande potere che abbiamo su coloro che espongono il proprio lavoro al nostro giudizio. Prosperiamo grazie alle recensioni negative, che sono uno spasso da scrivere e da leggere, ma la triste realtà è che, nel grande disegno delle cose, anche l’opera più mediocre ha molta più anima del nostro giudizio che la definisce tale. Ma ci sono occasioni in cui un critico qualcosa rischia davvero, ad esempio nello scoprire e difendere il nuovo. Il mondo è spesso avverso ai nuovi talenti e alle nuove creazioni; al nuovo servono sostenitori.”   

Daniele Peluso

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Tracklist:
01. Hail to the Hammer     
02. Excavation     
03. The Rune     
04. Ten Wild Dogs     
05. God of War     
06. Sand in the Wind     
07. Ormurin Langi     
08. How Far to Asgaard

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