Recensione: Human Nature
Black Paisley, il cui nome – assicurano – non prende spunto da un pattern “a goccia” tipico delle bandane (pare di origine persiana) ma bensì da una chitarra posseduta da Richie Sambora (Bon Jovi), ovvero una classic Fender Signature del 1996… che guarda caso presenta lo stesso tipo di decoro.
Band svedese nata nel 2015 al quarto full-length con “Human Nature”, disco autoprodotto che alberga all’ interno di quel motel molto ampio che è la NWOCR (New Wave Of Classic Rock), un ambiente che include almeno 40 anni di musica ed influenze.
Per semplificare la questione diremo semplicemente che traggono ispirazione dalle grandi rockband del passato, quelle che del genere hanno segnato la storia, pur beneficiando di un mixing (Mike Fraser) e mastering (Ryan Smith) contemporanei che alleggeriscono, senza però mancare di esemplificare troppo il contenuto.
“Human Nature” presenta una copertina con un teschio immortalato con la bocca spalancata, come intento ad gridare. Ricoperto da uno spesso muschio verdeggiante mostra all’apice del cranio qualche timido bocciolo rosa, mentre sembra sbraitare: “hear the planet screaming, when it’s trying to survive!”, parole tratte dalla omonima canzone che apre l’album, evidenziando una grande energia. Una ritmica super creativa data dal basso marcato di Jan Emanuelsson che alle prime note sembra un po’ un gatto incavolato che fa dei versi gutturali alla chitarra super carica di Franco Santunione, avvisandolo di non dargli fastidio: “guarda che graffio…”, poi però si mette in mezzo la batteria di Robert Karazsi, li mette d’accordo e vanno di pari passo.
Stefan Blomqvist alla voce (e chitarra) mostra di possedere tutte le carte in regola per cantare un ottimo e nitido rock, riuscendo ad adattare il suo range vocale alle varie tracce proposte.
Il teschio è un elemento ricorrente in tutte le copertine del gruppo, un simbolo potente in quanto sinonimo di lutto, ma sempre associato alla presenza di un fiore rigoglioso, che dà un forte contrasto tra caducità e vitalità, un equilibrio fragile e ricco di sfaccettature, così come lo è questo album che offre un ottimo e variegato easy listening.
Pur evidenziando una preponderanza 80s Whitesnake-oriented, che non manca mai di citare degli ottimi 38 Special, “Human Nature” racchiude molte tracce che hanno tanto da spartire con quel periodo del “rock classico”, alla fine degli anni ’60, in cui il country e il southern rock, che avevano incominciato timidamente a svilupparsi negli stati meridionali degli U.S.A, divenivano grandi successi commerciali arricchendosi delle calde sfaccettature di quella musica che aveva i “blue devils” i c.d diavoli blu (dall’ inglese “to be blue” = essere triste). Una musica popolare nata dai canti degli schiavi afro-americani nei campi di cotone, con gli spirituals, un genere amareggiato, inquieto che era l’antesignano di quello che in una sola parola può essere definito blues.
Ne sono un esempio la rodeo “Set Me Free” o “Mojo” col nome che evoca una mistica spiritualità hoodoo data dall’ottima ossatura della ritmica di batteria e dalla splendida linea di basso capace di conquistare da subito, una chitarra alla Gary Moore che scioglie, unite alla voce di Stefan Blomqvist che fa rivivere il periodo d’oro del melodic rock.
Ma è presente una componente più aggressiva ed emozionale: “Set Me On Fire” sembra veramente incendiare l’aria attorno a noi (parecchie recensioni fa vi avevo detto che ogni band che si rispetti prima o poi decide di inserire in tracklist una traccia “on fire”? In effetti non mi smentisco mai…), apre con un coretto: “set me on fire / turn off the water / light will lead the way” cantato contemporaneamente dai quattro componenti della band (che nel video ufficiale sono posizionati come nella copertina di Bohemian Rhapsody dei Queen), gustosissima per quanto concerne il lavoro delle due chitarre che si spalleggiano una meraviglia e sfuggono in qualche sfumeggiante assolo. La ritmica decisa e catchy e il testo molto coinvolgente la rendono una perfetta hit che più ascolti più ti conquista.
Qui e là vi si accenderà qualche lampadina: “Crazy” all’ attacco ricorda molto Baba O’Riley dei The Who ad esempio, tuttavia l’incredibile capacità di rielaborazione di questi musicisti è tale da riuscire a reimpiegare qui e lì qualche sporadico machiavello senza farvelo pesare troppo, anzi, addirittura migliorandolo e facendolo suonare nuovo.
Consigliatissimo.
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