Recensione: III

Di Stefano Usardi - 10 Gennaio 2020 - 10:31

A tre anni dal complesso ma sfolgorante “Opening of the Eye by the Death of the I” tornano alla ribalta quei geniacci degli In Human Form con un nuovo capitolo della loro discografia. “III”, questo il titolo del terzo album del quintetto di Lowell (Massachussets), prosegue il discorso tanto caro ai nostri amici, un discorso elegante e sfaccettato fatto di black metal, rock progressivo (nella sua accezione più inclusiva) e incursioni jazz. Tre lunghe tracce per un totale che sfora di poco i tre quarti d’ora, durante i quali i nostri americani si permettono di mescolare a loro piacimento generi musicali apparentemente inconciliabili ma senza perdere mai di vista l’obiettivo finale. Ancor più che nel capitolo precedente, infatti, i nostri si divertono a creare un ibrido multiforme e sfaccettato, alternativamente introspettivo e d’ampio respiro, ma sempre caratterizzato da una complessità intrinseca piuttosto pronunciata: niente musica usa e getta per gli In Human Form, ma sempre un prodotto che necessita di ascolti attenti per essere adeguatamente compreso. Rispetto al capitolo precedente poco è cambiato: i nostri sono sempre sul pezzo, e riescono a donare personalità ad ogni fraseggio grazie alla perfetta alchimia che si viene a creare tra gli strumenti, ma gli In Human Form compiono anche stavolta il piccolo passo in avanti che ci si aspettava da loro. Per capirlo bastano i primi minuti dell’opener “Apocrypha Carrion”, in cui ad un’apertura arcigna e furente fanno seguito, in successione tanto rapida quanto fluida, un intermezzo dilatato, quasi pensoso, e una fiammata dal taglio prettamente rock, salvo poi ombreggiare tutto con sfumature più inquiete e nervose e, in un attimo, ricominciare tutto da capo, in un carosello sonoro caleidoscopico guardato a vista dal cantato straziante di Patrick (che, ancora una volta, mi risulta il vero boccone amaro del lavoro, anche se solo per una questione di gusti personali piuttosto che di effettive carenze sue). La vena progressive del gruppo è sempre palpabile durante l’ascolto di “III”, ma lungi dal trasformare l’album in un mero esercizio di stile gli dona un carattere eterogeneo ma unitario al tempo stesso, con i vari movimenti che si combinano egregiamente per creare un unicum affascinante e mutevole. Le transizioni da un segmento all’altro sono sempre fluide, organiche, e anche quando la canzone impone degli improvvisi stop & go il passaggio non è mai traumatico o fuori posto, ma consente all’ascoltatore di seguire lo sviluppo musicale senza scossoni. I generi si fondono, si affastellano, in un continuo andirivieni che pesca da tutto ciò che viene in mente ai nostri – si vedano ad esempio le sfavillanti incursioni del sax, capace di donare alle composizioni una sfumatura che di volta in volta profuma di jazz anni ’20 o di certo pop a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, o gli sporadici intermezzi strumentali che dominano la centrale “Weeping Stones” e riecheggiano, per certi versi, il Carlos Santana più elegiaco e crepuscolare – senza, per questo, risultare ridondanti. È proprio quest’aspetto che costituisce un’altra caratteristica degna di nota di “III”, e cioè la sua strana immediatezza: nonostante, infatti, gli In Human Form giochino continuamente con una materia musicale tutt’altro che semplice, in costante movimento e dagli accostamenti quantomeno bizzarri, bastano pochi ascolti per rendersi conto che tutto è al posto giusto, perfettamente bilanciato con ciò che gli sta intorno. Emblematica in questo caso è la traccia conclusiva, “Canonical Detritus”: ventidue minuti di genio e sregolatezza attentamente studiati, in cui si passa dalla grandeur del rock epico alle profondità più gelide del black metal, avanzando sinuosamente tra sporadici fraseggi più guardinghi che di colpo si fanno ruvidi, arcigni, pur lasciando trasparire una certa, atmosferica gravitas, che poi sfuma in un finale perfetto, in cui l’indolenza sorniona del jazz si sovrappone alla violenza del black metal. Pollice alto anche per la copertina, molto affascinante e, a mio modestissimo avviso, decisamente superiore a quella del suo predecessore.

Non mi vergogno ad ammettere che, se l’avessi scoperto prima, questo gioiellino sarebbe finito immediatamente nello specialone natalizio di Truemetal, dritto dritto nella mia top 10. Purtroppo il tempo è stato tiranno, ma ciò non toglie che ci si trovi di fronte a un signor album, che merita di essere apprezzato da tutti gli amanti dell’ottima musica. Avanti così, ragazzi.

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