Recensione: In A Mirror Darkly

Di Roberto Gelmi - 23 Aprile 2014 - 0:03
In A Mirror Darkly
Band: Mekong Delta
Etichetta:
Genere: Thrash 
Anno: 2014
Nazione:
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85

Diceva Eraclito, filosofo del “tutto scorre”: «Non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume». Nel caso del Mekong lungo più di 4000 chilometri (meta di salvezza agognata da Christian Bale in Rescue Dawn di Werner Herzog) tale asserto è vero come non mai; dalla fonte fino al suo delta, luogo geografico da cui la band di Ralph Hubert ha preso il suggestivo monicker. Il gruppo, capostipite di un genere ibrido tra thrash e prog metal, non ha mai ripetuto se stesso, ha sempre stupito (penso soprattutto ai capolavori “Pictures at an Exhibition” e “Wanderer on the Edge of Time”) ed è così anche per la nuova e undicesima (!) fatica in studio.
Non che manchi la dovuta coerenza con il passato; è lo stesso fondatore Hubert che a questo proposito dice: «I feel that we’ve once again found the right mix of complexity and uninterrupted leitmotiv» (sento che abbiamo di nuovo trovato il giusto amalgama di complessità e continuità leitmotivica).
Il combo tedesco propone, tuttavia, un album dall’incredibile longevità d’ascolto, graffiante nel suo sprezzo per qualsivoglia compromesso commerciale e privo di ombre riconducibili ai lidi del già sentito.
Il mastermind ha, altresì, una visione sempre in fieri della musica. Non sorprendono, dunque, le sue parole: «You can call In A Mirror Darkly the continuation of the Wanderer theme, but it’s no copy, it’s an independent recording» (si può considerare In a Mirror Darkly la continuazione del tema di Wander in Time, ma non ne è una copia, è una registrazione a se stante); cui va aggiunta un’ulteriore glossa: «The new material is a little more loosely knit than on Wanderer On The Edge Of Time and only partly connected by little interludes» (il nuovo materiale è un po’ più flessibile rispetto a Wanderer On The Edge Of Time e solo in parte unito da brevi interludi).
Hubert ha le idee chiare anche circa i minutaggi spropositati di certa proposta prog. e sostiene che l’equa durata per un brano dei Mekong Delta è orientativamente tra i cinque e i sette minuti, «just the right time frame to gain sufficient stylistic depth without pushing the envelope or creating artistic ambiguities» (giusto il perfetto lasso di tempo per raggiungere una bastevole profondità stilistica, senza forzature e senza creare ambiguità artistiche).

Ne è chiaro esempio l’ouverture iniziale, che nei primi minuti presenta una chitarra acustica solista da brividi, degna di Tarrega o Al di Meola; al min. 2:12 il sound, però, diventa di colpo roccioso, quasi à la Fates Warning. Landenburg (session-man dalla carriera invidiabile, assoldato per la sua perizia anche da Turilli per il debutto dei suoi Rhapsody) detta ritmi implacabili, il basso di Hubert è tutt’altro che penalizzato dal missaggio e le chitarre suonano, immancabilmente per i Mekong Delta, un po’ vintage. Siamo lontani dal djent in quanto ad accordature, non per quanto concerne l’insania tecnica messa in campo, cui s’aggiungono effetti in postproduzione (filtri ed echi), una giusta dose di epicità e un certo sound malato degno dei Cacophony.
Martin LeMar (Angels Cry, Lalu) entra in scena con “The Armageddon Machine”, brano dall’incedere claudicante su tempi composti. Ancora delay inflazionati, mentre la voce, quando si fa oscura, ricorda quella di Daniel Gildenlöw. Le linee di basso, da par loro, fanno rimpiangere i perduti e seminali anni Ottanta (chi ha detto Annihilator?).
Sinistri colpi di tamburo per l’inizio di “The Sliver in Gods Eye” (titolo intelligente che si rifà a Lc 6, 41 ?) su armonie di tastiera dilatatissime. Doppie voci, atmosfere da oracolo delfico e una forma canzone ancora una volta atipica. I testi riportano alla mente “A Certain Fool (Le Fou)”, brano del 2010, e trattano della sconfinata bigotteria e rigidità umana. Hubert afferma che il brano nasce dal seguente interrogativo: «Why do people have to be so stupid?». Non ci dilunghiamo oltre, sulla bêtise umana è sempre attuale quanto detto da Einstein a proposito delle due uniche cose infinite che esistono al mondo.
Il finale del brano, con ostinato di tastiere e un assolo di chitarra in lontananza, nella sua inconcludenza prelude al riffone d’apertura di “Janus”, traccia più thrash che progressive, con doppia cassa all’avvio, che si placa, però, dopo solo quaranta secondi per lasciar spazio a ritmi più ariosi. La voce tirata di LeMar calza a pennello con i cambi di tempo fulminei proposti senza soluzione di continuità. I testi parlano del dio bifronte Giano, custode e personificazione degli inizi e dei crocevia, tra le divinità di spicco del pantheon politeista antico. Giano era anche legato alla dimensione militare: le porte del tempio eretto in suo nome nell’Urbe si spalancavano, infatti, in tempo di guerra (non a caso Augusto lo fece chiudere a suggello della ritrovata e imposta pax romana dopo le lunghe guerre civili del I sec. a.C.).
Strepitosa la strumentale “Inside the Outside of the Inside”, tra Dream Theater (non certo quelli della niente più che passabile “Enigma Machine”) e Andromeda (penso alla terremotante “Morphnig into nothing” in “II=I”) sei minuti di delirio manierista che ogni amante del prog. non può lasciarsi scappare. Un brano che trasuda energia e creatività a ogni nota.
Ancora ritmiche thrash in apertura di “Hindsight Bias”, brano sviluppato attorno a un tritono luciferino. Ottimi i cambi di tempo nella parte centrale del pezzo, così le terzine di doppia cassa macinate da Landenburg.
La conclusiva “Mutant Messiah” (il titolo pare preso dagli Spiral Architect) non dà respiro all’ascoltatore fin dai primi secondi sincopati, con un main-theme micidiale. Sette minuti di supponente metal ipertecnico, giusto finale di un album dalla scaletta corta, ma sempre sostenuta. A metà brano si avvertono addirittura echi ‘opethiani’!

Cos’altro aggiungere, se non che siamo di fronte a un disco memorabile, privo di filler e che viaggia sapientemente su due velocità: quella implacabile di brani come “Inside the Outside of the Inside” e “Mutant Messiah”; e quella più compassata di “The Sliver in Gods Eye” e “Janus”?
La line-up, consolidata dal 2008, è garanzia della qualità impressionante di un platter, che già in copertina, con una sorta di riproposizione oscura del prisma floydiano del ’73, lascia intuire l’insania messa in campo dai Mekong Delta.
Album consigliato ai progster più intransigenti e assolutamente d’avere per i patiti di Motorpsycho, Watchtower e Voivod.

Roberto ‘Rhadamanthys’ Gelmi

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