Recensione: Incura

Di Roberto Gelmi - 15 Agosto 2014 - 14:00
Incura
Band: Incura
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Genere:
Anno: 2014
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85

È vecchio il mondo? Nell’aria si respirano da qualche tempo sentori di Weltschmerz ferale, tuttavia c’è ancora qualche artista che tenta di valorizzare la vita che si perpetua, con musica originale e innovativa, che fa del notum un novum speranzoso.
Per questo ringraziamo la storica label Inside Out Music, un po’ l’Harmonia Mundi del prog. europeo, che crede nell’ottimismo e assolda nel suo roaster gli istrionici Incura.
Il gruppo canadese vede così pubblicato il proprio self-titled di debutto anche in Europa, dopo la comparsa nel 2013 in America (per Coalition Music/Warner Music Canada) e, in patria, relativo tour di supporto, chiamato in modo calzante “Theatre of Anarchy Tour“.
Il combo d’oltreoceano ha, però, alle spalle una decina d’anni d’esperienza e alcuni EP: formatisi nel 2003 a Lethbridge, con il nome Invein, nel 2006 si traferiscono a Vancouver e cambiano moniker. Da allora in poi sarà Incura il loro blasone, prendendo spunto dall’incantesimo rigenerante di Final Fantasy.

Parliamo di musica ritemprante, dunque, e con tanta magia. Vista l’oggettiva difficoltà di catalogazione, per il sound dei canadesi si è coniata la definizione theatrical hard rock, ricalcando la dicitura theatrical metal attribuita ai connazionali UnExpect (noti anche in Italia per la loro presenza durante il Progressive Nation Tour del 2009). Diciamo, fin da subito, che questa classificazione lascia il tempo che trova. L’unica cosa d’affermare, semmai, è che sono molte le influenze musicali che vivono nel sound degli Incura: dal metal, al prog. più tecnico, passando per il rock d’annata e Andrew Lloyd Webber. A questo va aggiunto l’incredibile falsetto del cantante del gruppo Kyle Kruninger, artista dalla personalità decisamente “debordante”.

Se l’artwork può lasciare spiazzati nella sua cupa essenzialità – e così il look dei tatuatissimi componenti degli Incura, dalle capellature per giunta non poco bizzarre – i testi, invece, veicolano un chiaro messaggio: «Non seguire gli altri, pensa con la tua testa! Chiediti sempre il perché di ciò che fai e sii te stesso.» La passione, la tenacia e l’autostima che lega i membri della band è la stessa, altresì, che cementa il rapporto con gli ancor pochi, ma fedeli, fan della band canadese. Con queste premesse il gruppo presenta potenzialità difficili da limitare.

Possiamo, quindi, aspettarci di tutto dai primi secondi del platter e, invece, con un mirato aprosdoketon (effetto inatteso), una mera chitarra ritmica oscura e alcuni vocalizzi in penombra aprono il disco, che, in men che non si dica, prende forma in un crescendo heavy. “Get The Gun” è un opener che resta impresso anche dopo svariati ascolti, nonostante un refrain troppo prolisso, interpretato da Kruninger, il cui timbro di prim’acchito può (piacevolmente?) sconcertare. Si tratta di un falsetto espressivo, che va a cozzare con il sound pesante delle chitarre, creando un sound unico, ricco anche di parti di pianoforte e qualche bending djent. Al quarto minuto l’assolo della 6-corde è ispirato e si libra con levità, su una trama sonora accogliente e ricercata. Ottimo il finale trascinante con wah wah e batteria veloce.
Svisate catchy per gl’istanti iniziali di “I Breathe This”, pezzo geniale e camaleontico. Sul finire del primo minuto un bridge inaspettato prelude a un ritornello dalle linee vocali più che impegnative. Il punto forte degli Incura sta nello stupire e ci riescono alla grande, con continui cambi d’atmosfera, pur incorniciati in una forma canzone ortodossa dal minutaggio sempre contenuto. Nella seconda metà del terzo minuto ci sono momenti vagamente fusion, poi i ritmi si fanno heavy e il brano si chiude con la riproposizione del refrain.
Volteggi funambolici in apertura di “I’m Here Waiting”, una composizione eclettica, con cadenze di pianoforte e uno strepitoso Kruninger, vero leader del combo canadese. Con il proprio carisma imprime carattere a ogni song in scaletta: la cosa può piacere oppure no, prendere o lasciare, non ci sono mezze misure. Si aggiunge un breve assolo dissonante di chitarra e poco altro, questo basta per mantenere il disco su livelli ragguardevoli. Qualche armonizzazioni eterea potenzia il finale, che termina bruscamente.

Who You Are” è uno dei pezzi più sorprendenti del platter. Una sorta di recitativo teatrale, che richiama alla mente la follia burtoniana dei Mechanical Poet di Woodland Prattlers, o il grande Devin Townsend. Accompagnamento di pianoforte, tastiera e chitarra elettrica, un mix ben assortito e l’ennesimo ritornello azzeccato. A metà del brano, una breve parte strumentale con subitanee schiarite epiche à la Haken. Kruninger osa non poco, ma ogni sua imperfezione valorizza maggiormente la sua prova, fatta di glissati, sospiri, acuti e cambi di tonalità.
Un riffone prog. dà avvio a “Turning Blue”, che prosegue fin troppo ruffiana, ma non distante da certi Threshold. Il refrain non vi uscirà più di mente, è ammiccante e cadenzato. Un’istant hit che potrebbe benissimo passare in radio, in un mondo migliore ovviamente. L’affiatamento tra la voce e l’insieme strumentale è qualcosa di sorprendente, dal vivo (se ripropongono in modo fedele la prova in studio) i cinque canadesi devono fare faville. Al min. 3:36 la breve parte batteria-voce è una chicca prelibata, poi c’è spazio per fuochi d’artificio di chitarra fino all’ultimo secondo.

Gl’Incura sanno stupire si diceva, ecco così spiegato l’intro pianistico di “Decide”, che spezza l’album proprio a metà, guadagnando in eclettismo. Il pezzo trasuda creatività e tocca l’acme non tanto nel refrain (buono, ma non il migliore del full-length), ma nella breve coda che segue, con vocalizzi vagamente orientaleggianti, tra i momenti più toccanti del self-titled. Da segnalare anche un synth allucinante, una parte strumentale (degna dei King Crimson), e un breve unisono chitarra-tastiera (sul finire del quarto minuto). Il paradiso di ogni progster!
Brano più breve in scaletta (da cui è stato tratto anche un video), “The Greatest Con” presenta una sviluppo lineare, pur con buone trovate sulle strofe. Il ritornello è passabile, incluso l’arrangiamento di percussioni. Un mea culpa in musica che vale più di mille vuote parole.
Here To Blame” attacca con un hammond simil Camel, inserti acustici e basso soffuso; poi le ritmiche si fanno rocciose, con terzine micidiali. I testi sono scanditi con netta isocronia sillabica, mentre certe soluzioni d’arrangiamento ricordano i Frost*. Un brano metal, in definitiva, con qualche scream e un tiro mozzafiato, tra sentori djent. Toni sentimentali all’avvio di “I’d Give Anything”, con voce solista e pianoforte. Sembra una ballad, ma non mancano impennate strumentali e un refrain solare, nonostante i testi elegiaci. L’ultimo minuto è un crescendo, ritraente un rimorso che tenta di farsi espiazione.
Finale più che riuscito, “Sweat Runs Cold” resta impressa per un leitmotiv lisergico di sottofondo. Il sound dei canadesi si avvicina paurosamente a quello dei 3, anche se la pesantezza delle chitarre è più accentuata, tra palm-mute e accordature droppate. A metà del quarto minuto il brano sembra terminato e invece riprende dopo pochi attimi di silenzio. Niente di eclatante, ma un buon epilogo, per un disco che poteva benissimo arrivare all’ora di minutaggio senza annoiare.

Non si riesce a trattenere l’entusiasmo dopo l‘ascolto di questo album, cosa rara ai nostri giorni. Gl’Incura, come i Maschine, sono tra le realtà più convincenti dell’attuale panorama prog. e non solo. Meriterebbero una maggiore visibilità e la possibilità di esibirsi, in sede live, come gruppo spalla di una band nota nel mainstream che conta. Per ora ascoltiamoci l’ennesimo album di debutto nato maturo e ringraziamo per il nuovo regalo l’etichetta indipendente tedesca nata nel lontano 1996.
 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

 

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