Recensione: Invincible Shield

Di Stefano Usardi - 8 Marzo 2024 - 8:00
Invincible Shield
Band: Judas Priest
Etichetta: Sony
Genere: Heavy 
Anno: 2024
Nazione:
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76

Quando si parla di Judas Priest si parla del Metallo. La compagine di Birmingham è attiva da mezzo secolo, e nonostante le sue origini affondino in territori meno borchiati di quanto l’utente medio si aspetterebbe è innegabile che da almeno quarant’anni il Prete di Giuda sia sinonimo di un certo modo di vivere la musica pesante, e con “Invincible Shield”, diciannovesima tacca sulla corazza dei nostri, Halford e soci ce ne ricordano il motivo. “Invincible Shield” arriva a sei anni dal precedente “Firepower” e ne segue prevedibilmente le pluriosannate orme, presentando i Priest ancora in ottima forma (soprattutto considerando le candeline in più sul groppone e problemi di salute non da poco per alcuni di loro) e impegnati a dispensare le loro tipiche scudisciate di heavy classico.
Dal punto di vista formale non ci sono sorprese: i nostri il mestiere lo conoscono molto bene e durante i cinquantadue minuti abbondanti di “Invincible Shield” passano da brani frenetici a martellate imperiose, mantenendo sempre la solita carica anthemica per fomentare gli animi anche negli episodi più lugubri. La ricetta, insomma, è la stessa; al limite si può parlare di qualche ripescaggio a livello sonoro (un esempio su tutti, l’uso sporadico di sintetizzatori che riecheggiano immediatamente il periodo di “Turbo”), ma quando si fa musica da mezzo secolo cose del genere sono inevitabili; per il resto si può essere sicuri che l’album suona al 100% Judas Priest. Questo, se da un lato innesca il meccanismo mentale che porti a sentire “Invincible Shield” come un album scritto col pilota automatico, dall’altro non può prescindere dalla constatazione che, nonostante le ampie dosi di mestiere che i nostri infondono nel lavoro, le canzoni che lo compongono abbiano innegabilmente un bel tiro. Durante l’ascolto di “Invincible Shield” si assiste infatti al classico excursus sul modo di intendere il metallo da parte di Halford & C.: la sezione ritmica si mantiene robusta e precisa, pompando senza sosta per consentire alla coppia di chitarre di mescolare le solite rasoiate a melodie maschie e scintillanti, tessendo il tappeto sonoro giusto per le scorribande vocali di Rob Halford. Tutto al posto giusto, ben dosato e ruffiano quanto basta per fare presa fin da subito. More of the same, insomma, ma finché i risultati sono questi ben venga: non c’è in giro molta gente che, dopo cinquant’anni di attività, riesca a tirar fuori dal cilindro un lavoro del genere alla posizione numero diciannove della propria discografia, quindi diamo a Cesare quel che è di Cesare.

Si parte con un terzetto di bordate: “Panic Attack”, col suo tentativo di rievocare la feroce frenesia di “Painkiller” nonostante una produzione sì corpacciuta ma meno stridente di quanto avrei sperato, detta subito le regole del gioco, seguita a ruota da una “The Serpent and the King” che se la gioca più o meno sulle stesse coordinate scivolando, però, su un ritornello non proprio perfetto, e l’adrenalinica title track, potente e screziata di enfasi battagliera. Un ottimo inizio, niente da dire. Con “Devil in Disguise” si abbassano i ritmi per incedere col fare arcigno e stradaiolo di una marcia cupa e rocciosa, mentre “Gates of Hell” la butta sul trionfalismo maschio e tenace punteggiandosi, di quando in quando, di melodie più languide. “Crown of Horns” scandisce il centro dell’album con atmosfere malinconiche che si intrecciano ad un fare disilluso e ritmi quadrati, spandendo intorno a sé un pathos forse troppo dimesso, mentre con “As God is my Witness” si torna alla carica. Il pezzo dispensa melodie sinuose e un piglio propositivo, che si carica col procedere del minutaggio screziandosi di note trionfali. “Trial by Fire” torna a ritmi quadrati mescolando un fare arcigno con qualche scheggia melodica più passionale, consegnandoci un Rob Halford sentito e rombante. “Escape from Reality” si tinge di malignità, stillando gocce velenose tra un riff e l’altro e condendo il tutto con filtri vocali insinuanti ed un ritornello inquisitoriale. “Sons of Thunder” torna alle chitarre grosse e determinate, mescolando arroganza ed improvvise schegge enfatiche per tre minuti dal fare duro e puro. Chiude l’album “Giants in the Sky”, tributo dei Judas Priest ai mai abbastanza rimpianti Lemmy e Ronnie James. La traccia si sviluppa come una marcia solenne, sentita e possente ma permeata da un sapore agrodolce, sublimato nel rallentamento carico di pathos che apre l’ultimo quarto del pezzo, e chiude degnamente un lavoro che, nonostante qualche ombra qua e là, non potrà che rendere felici molti fan del combo britannico.

Invincible Shield” è ben fatto, forse l’album migliore che Halford, Hill e soci potessero fare in questo momento, e nonostante qualche episodio un po’ sottotono scarta abilmente le magagne di una prevedibilità piuttosto marcata sfruttando al massimo piglio determinato e canzoni accattivanti e d’impatto. Aspettarsi un altro “Painkiller” non sarebbe stato assolutamente realistico, ma se alla loro età i Judas Priest riescono a tirar fuori dal cilindro un lavoro di questo livello poco importa che non sia un capolavoro, lunga vita ai Judas Priest!

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