Recensione: Justice of Fire

Di Marco Catarzi - 6 Ottobre 2020 - 8:00
Justice of Fire
Band: Power
Etichetta:
Genere: Heavy  Power 
Anno: 2020
Nazione:
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78

Non sempre l’incontro tra guitar hero e certo heavy/power metal ha portato buoni frutti. Spesso si è rivelato difficile raggiungere l’equilibrio tra esuberanza virtuosistica e compattezza del songwriting. Per fortuna esistono eccezioni, prima tra tutte quella di David T. Chastain, con gli omonimi Chastain e i CJSS (oltre a una più che discreta carriera solista). Andando indietro nel tempo ricordiamo gli Hawaii di un giovane Marty Friedman (esploso poi in coppia con Jason Becker nei Cacophony, prima di approdare alla corte di Mr. Mustaine), oppure gli “shredder” Racer X.

Per un chitarrista decidere di creare un gruppo attorno al proprio progetto depone a favore di un’idea di musica che supera la mera esplorazione tecnica e vuol invece inserirsi in maniera più ampia nell’immaginario dei fan. È ciò che avviene con i Power di Daniel Dalley, vero e proprio mastermind delle sei corde e songwriter-in-chief di Justice of Fire. Per gli amanti più devoti delle sonorità US power di inizio anni Novanta questo titolo non suonerà del tutto nuovo… si tratta infatti di un album uscito nel 1994 (su Rock the Nation), momento non certo facile per un certo tipo di heavy metal, e forse troppo presto dimenticato. Dalley deve aver creduto davvero molto in queste canzoni se a più di vent’anni di distanza ha deciso di reincidere tutto l’album e reimmetterlo sul mercato. Ci muoviamo nella grande tradizione power e techno thrash americana, che proprio tra anni Ottanta e Novanta ha dato alla luce album che rendono fieri i collezionisti che li possiedono. Alla voce su Justice of Fire troviamo chi di quella tradizione è uno dei migliori esponenti, nientemeno che Alan Tecchio, tra i grandi singer di una generazione che conta esempi del calibro di James Rivera e del compianto Carl Albert. La carriera di Tecchio parla da sola: Hades, Watchtower, Seven Witches e altri, nomi che aprono scenari affascinanti.

Lo stile di Dalley si caratterizza inoltre per un certo approccio neoclassico, evidente già nell’intro Prelude to Apocalypse, che con un oscuro arpeggio e un riff notturno apre la strada alla rocciosa Hand Over Time, con un tappeto di tastiere su cui la voce di Tecchio prende subito la scena, mostrandosi ancora più profonda e aggressiva rispetto alle vecchie incisioni del 1994. La tecnica non eccede mai a scapito della struttura delle canzoni, e questo è il grande pregio di tutto l’album, in cui le parti soliste ricordano i Vicious Rumors dell’accoppiata Thorpe/McGee.

Firewalk ha una partenza atmosferica, quasi prog, i riff si velocizzano sempre più, Tecchio procede spedito e sale di tono, col sostegno di una sezione ritmica dinamica e incisiva, che in ogni canzone non svolge mai il ruolo di semplice accompagnamento. Rising Son (Through the Eyes of God) evidenzia grande spessore nel songwriting, le chitarre dialogano tra loro in un sovrapporsi di melodie e contrasti con le linee vocali, tra intensi cambi di registro, chiudendosi in maniera quasi sinfonica. An Evil Presence è un altro strumentale neoclassico, sempre su toni oscuri e apocalittici, che divide simmetricamente l’album e lascia spazio a Deceiver of Truth, pezzo speed dai ritmi aggressivi ed evocativi, tra Sanctuary e Fates Warning.

The Vision mostra una ricerca delle melodie e un gran lavoro solista, mentre la title-track presenta un riff sporco che ne regge tutta la prima parte, per poi sfociare in partiture power prog connotate da una certa teatralità, con un andamento generale da colonna sonora. Eternally, strumentale che ricorda i Savatage più malinconici, chiude un album che sembra reggere benissimo la prova dal tempo, ricco di sfaccettature, capace di crescere negli anni e con gli ascolti, come una pietra dai bordi irregolari ma brillanti, che riflette diverse sfumature di luce in base al lato che viene mostrato.

A conti fatti è un piacere trovarsi ancora tra le mani dischi di questo tipo, e non era scontato, visto che spesso manovre simili ne snaturano l’anima originaria. Justice of Fire vive delle migliori vibrazioni dell’US power, per chi non cerca canzoni di facile presa e memorizzazione, e oltre alla perizia strumentale trae forza dalla prestazione magistrale di un Tecchio in stato di grazia, che in più parti ricorda il miglior Carl Albert.

Nel suo complesso non siamo troppo distanti dai territori esplorati recentemente dai Witherfall, dopo tanti anni vedremo se i Power sapranno dare seguito con nuova musica a un percorso musicale che a questo punto suscita le migliori aspettative.

Intervista: Power (Daniel Dalley e Alan Tecchio)

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