Recensione: Kingdom of Conspiracy

Di Francesco Sorricaro - 12 Agosto 2013 - 18:42
Kingdom of Conspiracy
Band: Immolation
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
Nazione:
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79

Nostalgia del buon vecchio death metal americano trita ossa di una volta? Avete aspettato invano per i Morbid Angel? Ecco quello che fa per voi, un nome, una garanzia: Immolation!

Kingdom of Conspiracy è il titolo dell’ultimo platter della band di New York giunta ormai ad un pelo dal traguardo dei dieci full-lenght con questo nuovo granitico lavoro. Sì perché difficilmente il gruppo di Robert Vigna e Ross Dolan ha mai deluso i die-hard fan del genere. Anche con un disco più ‘variegato’, come il precedente Majesty and Decay, hanno mietuto più elogi che critiche, perché il nocciolo dei loro platter è sempre quel invincibile mix di potenza e compattezza di cui solo i padri fondatori conoscono la ricetta.

La titletrack di apertura non lascia scampo ai dubbi: gli Immolation sono tornati per fare male.

 

“Watching us play their game
Watching our freedoms fade
A crescendo of unheeded cries
Now cries of the persecuted”

 

Il drumming di Steve Shalaty è impressionante ed è qui che si gioca la partita: l’incessante pestaggio di pelli cui siamo sottoposti ci catapulta in un’atmosfera di angoscia e oscurità; il mondo è obliato, le menti controllate, non c’è scampo per la virtù né per l’illusione perché sono già spazzate via nelle tenebre della menzogna e della propaganda.

Lo stridio dissonante della chitarra di Vigna, marchio di fabbrica indelebile sin dai tempi di Dawn of Possession, ci accompagna così in un fluire di tracce corpose come magma, che vive di episodi più maestosi (Keep the silence) ma anche di mazzolate senza esclusione di colpi (Indoctrinate). Il tutto è condito da una simbiosi perfetta e killer con la 6 corde di Bill Taylor il quale, forse mai come questa volta, si ritaglia uno spazio importante all’interno delle alchimie della band.

Che dire poi del growling di Ross Dolan? Vi basterà ascoltare All that awaits us per assaporare la fatalità inconfondibile del suo incedere in un brano composito e ricco di spunti interessanti: ideale chiusura di uno dei migliori ritorni di questi ultimi anni in campo death metal, un lavoro senza fronzoli inutili ma con tutta la sostanza che solo chi ama davvero questo genere può apprezzare, in barba ai facili squilli di tromba che, troppo spesso, hanno spalancato il sipario su fin troppo grosse delusioni.

Francesco ‘Darkshine’ Sorricaro

 

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