Recensione: Kings of the Badlands

Di Vito Ruta - 24 Febbraio 2022 - 14:53
Kings of the Badlands
Etichetta: Frontiers Music
Genere: Hard Rock 
Anno: 2022
Nazione:
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76

Arrivano dal paese di Vlad Hagyak III, meglio conosciuto con il patronimico Dracula o con il soprannome di Vlad Tepes, derivante dalla predilezione di sbarazzarsi dei nemici mediante impalamento, i Manic Sinners a presentare – sotto l’egida di Frontiers – il loro primo album intitolato “King of the badlands”.
Grazie ad internet e alla sterminata mole di materiale e talenti provenienti da ogni angolo del globo a cui abbiamo accesso, siamo tutti troppo smaliziati per pensare ancora che il seme del rock possa germogliare solo a determinate latitudini. Il suggerimento di ascoltare l’album dei Manic Sinners senza preconcetti (e con il volume a palla, ovvio!) è, quindi, assolutamente superfluo e non lo darò.

La band schiera alla voce il potente Ovidiu Anton, solista di successo che ha acquistato visibilità internazionale rappresentando all’Eurovision Song Contest National Selection 2016 la Romania (sino all’esclusione dello Stato, per insolvenza nei confronti dell’Unione Europea di Radiodiffusione). Affiancano il singer, il polistrumentista Adrian Igrisan (cantante e chitarrista dei Cargo, una delle rock band più amate in Romania) alla batteria, tastiere, basso e chitarre, e Toni Dijmarescu, turnista di tutto rispetto, che con Igrisan si è spartito in studio le parti di chitarra e basso.
Gente tutt’altro che improvvisata, e anzi, di elevato livello tecnico: lo si capisce, sin dal brano di apertura “Drifters Union”, energico, ben costruito, con chitarre spigolose stemperate da cori curati.
La titletrack “King Of The Badlands” mantiene l’adrenalina in circolo grazie alla sinergia di chitarre e tastiere, creando, complice il piglio determinato e il tono cavernoso di Ovidiu, riuscite atmosfere alla DIO.
Ci pensano “Anastasia” e la ballad “Ball And Chain”, che si fa preferire alla prima per le romantiche parti di chitarra ed un testo appena meno scontato, a rallentare il ritmo, aprendo a stilemi AOR.
Under The Gun” mantiene le aspettative del titolo e riporta i Manic Sinners a buoni livelli di aggressività con un brano costruito su un riff tanto semplice quanto epico.
Out For Blood” è un inaspettato brano strumentale da racing game, di poco più di tre minuti, avvincente e ben arrangiato, di cui sconsiglio l’ascolto in auto, perché può indurre una guida poco rispettosa del codice della strada.
Carousel”, pezzo decisamente melodico, risulta caratterizzato da un riff trascinante e accattivante che rende bene il roboante e gioioso turbinio dell’amore a cui il titolo rimanda. Sicuramente un highlight dell’album, unitamente alla successiva martellante “Nobody Moves”, traccia di stile diametralmente opposto, che offre l’interessante inserto di un coro che ben avrebbe figurato nella colonna sonora di Bram Stoker’s Dracula, tanto cupa e pesante, quanto sbarazzina ed effervescente risultava la precedente.

Play To Lose” è un gioiellino. Dopo il riff incalzante di apertura, il brano sembra prendere le pieghe di una ballad che strada facendo si anima e incalza sino a giungere ad un chorus drammatico che ha qualcosa sia di Ronald James Padavona che degli Whitesnake.
Giunge “Crimson Queen”, rasserenante traccia strumentale di breve durata, con un più che gradevole solo di chitarra.
A Million Miles” che delle atmosfere e sonorità catchy fa il proprio punto di forza prepara il finale rappresentato da “Down In Flames”. Riff introduttivo heavy anni ‘80 a parte, parecchio Iron Maiden, il brano di chiusura nulla aggiunge e nulla toglie a quanto i nostri hanno, sinora, offerto.

Più che buono l’esordio dei Manic Sinners che con “King of The Badlands” propongono uno stile moderno, personale e variegato, che pone accanto ad episodi più marcatamente melodici l’arrembante energia hard rock, senza incorrere in esagerazioni e senza momenti di stanca.

Non mi resta che accogliervi nei territori musicali di questo album, con la stessa formula utilizzata, nel film di Coppola, dal Conte Dracula all’arrivo di uno spaesato Jonathan Harker nei Carpazi: “Bun venit in pustietate.”

 

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