Recensione: Late Night Laments

Di Matteo Bevilacqua - 7 Ottobre 2020 - 12:06
Late Night Laments
Band: Tim Bowness
Etichetta: Inside Out Music
Genere: Progressive 
Anno: 2020
Nazione:
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80

La notte, si sa, porta consiglio.

La notte è anche il momento della giornata in cui riscopriamo il tempo e lo spazio mentale in cui le emozioni si amplificano. Lontani dalla frenesia del quotidiano ci ritroviamo in quella che alcuni pensatori contemporanei definiscono la scatola magica, luogo di intima solitudine in cui siamo nuovamente in grado di concepire dei pensieri che si manifestano privi delle distrazioni generate da un mondo sempre di corsa. Una terapia per l’anima. Ed è proprio nel cuore della notte e della nostra scatola che trova il suo spazio l’ascolto di Late Night Laments, sesto album solista di Tim Bowness. Cantante, narratore, manipolatore di suoni – e conosciuto soprattutto come padre fondatore dei No-Man insieme a Steven Wilson – Tim da sempre riesce a creare per coloro che lo ascoltano il giusto spazio e il giusto tempo lontano dalla fretta delle loro vite. La sua musica rappresenta una versione del progressive lontana dagli assoli di chitarra fulminei e dalle ritmiche in tempi irregolari e beneficia di armonie semplici ma non banali, melodie introverse ma non desolate e arrangiamenti trasparenti, eclettici e intelligenti. Il titolo dell’album e l’artwork giocano un ruolo molto importante nella preparazione psicologica all’ascolto, quasi un invito ad essere trasportati in quella stanza con la luce soffusa, come se quell’uomo solitario con la tazza di the, i giornali e i dischi fossimo noi. Da segnalare la presenza di figure importanti come Steven Wilson dietro al mixer, Calum Malcolm (The Blue Nile, Prefab Sprout) al mastering e una miriade di guest musician che includono Richard Barbieri, Colin Edwin, Kavus Torabi, Melanie Woods, Tom Atherton ed Evan Carson.

Vediamo, allora, i brani in scaletta. “Northern Rain” apre l’album con una nota confortante. Nonostante la sensazione di solitudine e nostalgia che si percepisce fin dalle prime note traspare comunque ottimismo e Tim ci tiene per mano conducendoci nel suo mondo. Il viaggio dentro alla magica scatola è cominciato.

Con “I’m Better Now” il mood si sposta immediatamente in una direzione più oscura. Armonie non convenzionali e la caratteristica voce sussurrata di Bowness si scontrano con testi taglienti e profondi sull’omicidio in ambiente domestico, creando brillantemente un’atmosfera scomoda, quasi minacciosa. Un assolo di chitarra chiude questa canzone e completa l’atmosfera. “Darkline” rappresenta a parere di chi scrive il momento più alto di Late Night Laments. A differenza della maggior parte dell’album presenta un groove di batteria convenzionale, mentre la base armonica è creata da un vibrafono, una scelta di strumentazione interessante che svolge il compito di un pianoforte o di una tastiera ma conferisce alla struttura del suono una maggiore trasparenza. Questa rappresenta solo una delle tante scelte di arrangiamento non convenzionali sulla nuova produzione di Bowness. Il brano raggiunge il suo culmine in un assolo di synth dal suono distorto (simile a una chitarra che ricorda leggermente quello della chitarra sintetizzata su “Owner Of A Lonely Heart” degli Yes) creando un forte contrasto dove si perde il controllo e i pensieri viaggiano nello spazio sconfinato.
Si sente una certa sofferenza, la disperazione di una notte solitaria. I suoni sono molto evocativi, l’arrangiamento è impeccabile e la scelta degli accordi colpisce nel segno. “Darkline” vale da solo l’acquisto del disco.

Un intro delicato con la sempre rassicurante, quasi paterna voce di Tim ci porta in “We caught the light”. Soprende ancora l’uso di idiofoni che si sposano perfettamente con un pianoforte ripetitivo ed un contrabbasso quasi disordinato. Rispetto a “Darkline” si percepisce nuovamente l’ottimismo, un po’ di luce catturata nel cuore della notte.
Il carattere ripetitivo e basato su loop di Late Night Laments è qui portato al livello successivo: basata principalmente su un solo accordo, questa traccia emana un’atmosfera calma e rilassata. Con il suo incedere elettronico ed una certa tensione, “The Hitman Who Missed” è sorretta da una splendida linea di contrabbasso di Colin Edwin con l’armonia condivisa da un pianoforte perfettamente essenziale, ancora un vibrafono ed un tappeto di pads creando così un interessante contrasto tra strumenti sintetici e acustici. Davvero convincente, inoltre, il crescendo finale. “Never a place” colpisce subito nella sua semplicità, cantabile fin dai primi ascolti. Ancora una volta il carattere ripetitivo è l’arma vincente al punto che il brano sembra una ninnananna in cui l’ascoltatore si sente cullato e rassicurato, come se Bowness ci stese dicendo che andrà tutto bene. I fan dei Prefab Sprout coglieranno particolarmente l’eco di Paddy McAloon in questo brano.

La successiva “The Last Getaway” presenta uno degli arrangiamenti più essenziali dell’album e funziona completamente senza una linea di basso convenzionale. Questo dà alla voce di Bowness molto spazio per presentare uno dei testi più emozionanti dell’album, ciò nonostante il brano passa in fretta senza lasciare particolarmente il segno. Verso la fine, l’album diventa sempre più malinconico, persino un po’ cupo. Davvero bellissima “Hidden Life” che si concentra su voci rilassanti ed è interamente orchestrata dallo stesso Bowness, senza la presenza di musicisti ospiti. Questo porta l’atmosfera introversa dell’album al suo apice. La semplice drum machine e le poche note singole intervallate conferiscono a questa canzone un carattere particolarmente solitario. I Lamenti giungono al termine con la toccante “One Last Call”. Il vibrafono fa un’ultima apparizione, intrecciandosi con un pianoforte e con il potente contrabbasso di Colin Edwin.

 

Tirando le somme, rispetto al passato di Bowness (in cui in una certa misura potevamo trovare elementi di rock progressivo o art pop pur mantenendo un’atmosfera dolce e tranquilla), questa volta si raggiungono nuovi orizzonti e ogni traccia del rock è cancellata dalla musica di Bowness a partire dalla strumentazione, spesso elettronica che fa apparire il tutto ancora più fragile. Il sound design è minimalista, l’atmosfera è intima, la musica è lenta, intensa e profonda e nonostante ciò tutt’altro che accessibile al primo colpo. Si potrebbe infatti arguire che la sensazione generale è che i brani non vadano da nessuna parte e questo sarebbe sicuramente un valido argomento. Detto ciò a volte può andare anche bene così. L’ ascolto non troverebbe sempre spazio ma questo è un album che ha diritto di riceverne molti. Late night Laments è riservato a momenti particolari, per le persone a cui piace godersi la musica così come viene ritratta sull’artwork: a casa da soli, senza distrazioni, nella propria scatola magica.

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