Recensione: Legends
Cosa sono le leggende? Forse delle storie dal passato che hanno lasciato un’impronta indelebile sulla storia? Oppure uno o più personaggi che trainati dalla spinta del loro volere hanno compiuto imprese eccezionali che hanno ridefinito il mondo? Gli inossidabili maestri della storia, gli svedesi Sabaton, tornano a tre anni di distanza dall’ultimo platter incentrato sulla Grande Guerra, The War To End All Wars del 2022, con un disco che riporta in vita alcuni dei personaggi che più hanno affascinato ed incuriosito gli storici di mezzo mondo. Napoleone, Gengis Khan, Giovanna D’Arco, sono solo alcune delle figure che vengono presentate in questo nuovo lavoro che vede oltretutto un cambio di line-up rispetto al solito, con il rientro in formazione di Thobbe Englund alla chitarra e l’uscita di Tommy Johansson. Ma il mastermind delle composizioni del gruppo heavy/power svedese rimane il frontman Joakim Brodén che con l’aiuto del resto del team in alcuni brani, ci regala il “solito“ album dei Sabaton, per un sound davvero unico e riconoscibilissimo che riesce ad essere così marcatamente legato ad un trademark che ormai sta diventando leggenda nell’ambito del metal del ventunesimo secolo.
Mi sembra quasi inutile difatti, soffermarsi sull’epopea di questa band che dal 2005 ad oggi è riuscita a scalare delle vette inimmaginabili, soprattutto per una band vicina ad un sound heavy/power più “classico”, vissuta nel contesto di una scena metal moderna sicuramente ormai lontana da un sottogenere da molti considerato come “relegato al passato” come il power metal. D’altronde parliamoci chiaro – negli ultimi quindici anni le band che hanno davvero avuto un impatto importante sulla scena metal a livello di numeri si chiamano Bring Me The Horizon, Sleep Token, Spiritbox, Lorna Shore, Falling In Reverse con generi anni luce distanti da quello dei nostri eroi svedesi.
Ma i Sabaton (assieme probabilmente ai tedeschi Powerwolf) sono una di quelle poche band che sono riuscite ad interpretare in chiave moderna e personale un sound più datato, riuscendo a conquistare un audience imponente, anche grazie alla loro dedizione e fascinazione per la storia. Basti pensare a tutto ciò che hanno fatto in ambito musicale ed extra musicale per onorare questa loro passione, a partire dal loro canale youtube Sabaton History che con l’aiuto di uno storico (Indy Neidell), si cimenta nello sviscerare tutti i più particolari dettagli storici sui testi delle loro canzoni.
Un lavoro altrettanto encomiabile da questo punto di vista è stato fatto su Legends che fra l’altro è disponibile in due versioni – esiste infatti oltre alla classica versione, la più lussuosa “Storyteller’s Edition”, dove ogni canzone è introdotta da una narrazione abbastanza esaustiva sui personaggi in questione (esaustiva, precisa, puntigliosa, ma con quel velo goliardico che rende il tutto più piacevole). Musicalmente invece i Sabaton restano fedeli alla formula che ormai li ha resi protagonisti assoluti della scena metal europea da più di quindici anni.
Considerando la loro evoluzione sonora partita da Primo Victoria nel 2005 e arrivata a Legands nel 2025, è chiaro che i Sabaton negli anni hanno scelto di “rifinire” il loro sound senza drastici cambiamenti. Se i primi album della band erano più rocciosi e roboanti, con più pezzi veloci, una produzione più semplice e meno bombastica, i Sabaton targati 2025 ci offrono delle canzoni che per la maggior parte delle volte sono più mid-tempo, epiche, con una produzione incredibile e un lato pomposo che inizia a farsi sempre più preponderante nella loro musica, tra massicce sinfonie e orchestrazioni che sono ormai diventate un tutt’uno con il sound della band.
Nella “Storyteller’s Edition” (disponibile sono in versione finisca e non sulle piattaforme di streaming per ora), il disco parte con la prima traccia di narrazione che introduce il tema dei Templari, ma che soprattutto introduce il narratore, descritto come un uomo anziano che dinnanzi al fuoco racconta ad un ignoto visitatore, le gesta di un tempo lontano (il ventesimo secolo), dove il metodo di fruizione della musica era ancora affidata ai CD. Insomma un tributo all’epoca storica in cui sono cresciuti i membri dei Sabaton, per una narrazione che come già detto sa essere interessante, esaustiva (considerando il poco tempo affidatagli), ma allo stesso tempo che non si esime dall’essere scherzosa e goliardica, con più riferimenti alla band in sé, oltre che ai doverosi racconti storici.
Il brano Templars parte sotto il segno dell’epicità, per un pezzo cadenzato ma con un ritornello che ti si stampa in testa e dei cori assolutamente perfetti ed in linea con la grandiosità del pezzo. Purtroppo però la sensazione di déjà-vu è dietro l’angolo e appena partono quei riff di chitarra in sottofondo e prima che Joakim inizi a cantare ecco che nella nostra testa risuona impellente quel “A short man from texas a man of the wild, thrown into combat where bodies lie piled”– sezione tratta dal grande successo dei Sabaton, To Hell And Back. Eppure non stiamo ascoltando To Hell And Back, ma Templars. La stessa sensazione si ha con la bella Lightning At The Gates dove la melodia delle strofe è fin troppo simile a quella di Hearts Of Iron dal disco Heroes del 2015. E così che ci viene da cantare “It is not about Berlin, it is not about the Reich…” eppure qui non stiamo parlando di un pezzo del 2015 che parla della Germania Nazista, bensì di un brano scritto dieci anni dopo in cui si narrano le vicissitudini battagliere del condottiero e politico Cartaginese Annibale. Nonostante questo il pezzo è di buona fattura, regale, grandioso e con una grande prestazione vocale di Joakim che diciamoci la verità, è sempre il solito vocalist incredibile, specie nel far trasudare anche grazie al suo accento di deriva est-europea (il buon Brodén ha origini ceche), quelle emozioni più drammatiche e solenni che tanto bene si adattano alla proposta dei Sabaton che altrimenti risulterebbe forse eccessivamente “scanzonata.”
Ma l’album dopo Templars prosegue con un altro pezzo di livello come Hordes Of The Khan, brano ispirato dalla figura di Gengis Khan che ci restituisce una band rocciosa e roboante, un sicuro cavallo di battaglia per il prossimo tour europeo di novembre che ahimè, non toccherà l’Italia.
Ma continuiamo con le note positive, perché a chiudere l’album Till Seger ci introduce nuovamente alla figura storica di Gustavo Adolfo di Svezia, Re di Svezia dal 1611 al 1632. Per i fan dei Sabaton più attenti una figura non nuova in quanto già presentata nel magnifico concept album del 2012 Carolus Rex e come per quel disco (di cui esistevano due versioni, una cantata in inglese e una in svedese), qui la band sceglie di tornare a cantare unicamente nella propria madrelingua, per un pezzo che suona regale, maestoso, ma anche frizzante e glorioso, con una sezione di stampo quasi folk nel mezzo che risulta assolutamente splendida.
Maid Of Steel è un altro brano di valore posto in mezzo al disco. Ispirato alla figura di Giovanna D’Arco esso è un brano che “spezza” l’andamento del disco in un modo più che mai insolito. Per i Sabaton difatti, un pezzo mid-tempo dovrebbe essere il tipico spartiacque solitamente, ma in questo caso, in un disco con tanti pezzi mid-tempo, epici e cadenzati, un brano roccioso e veloce come questo è una bella boccata di aria fresca. Ancora una volta lo stacco melodico e pomposo di questa canzone è sublime, rimanendo uno degli hightlight del disco.
La stessa cosa non si può dire per la successiva e noiosa Impaler che narra le truci vicende dietro una delle figure più controverse della storia ossia Vlad “L’impalatore”. Un soggetto così particolare e maligno meritava forse un brano migliore che riuscisse a far trasudare quel lato più morboso e macabro che questa canzone avrebbe meritato. Al contrario ci troviamo dinnanzi ad un altro mid-tempo, ma stavolta insipido e poco ispirato.
Crossing The Rubicon pur non esaltando anche per colpa di un ritornello abbastanza piatto e con uno stile sentito mille volte nella discografia della band svedese, riesce comunque ad essere interessante nel narrare le vicende di Giulio Cesare, personaggio carismatico, ambizioso, ma allo stesso tempo molto complesso. In questo caso si narra del suo passaggio attraverso il fiume Rubicone, azione che nel 49 a.C segnò l’inizio della guerra civile contro Pompeo. Da segnalare in questo pezzo un bell’assolo di chitarra, elemento che come sempre non manca mai nella musica della band.
A Tiger Among Giants narra di Lu Bu il “Generale Volante”, rinomato guerriero durante la fine della dinastia Chinese degli Han, per un pezzo che parte con una batteria che ricrea quell’effetto sonoro tipo “tamburi da guerra”, prima che degli “shot” di tastiera in tipico stile Sabaton ci travolgano, seguiti da una magnifica sezione sinfonica su cui si poggia la drammatica voce di Joackim. Interessante anche il contrasto tra il ritornello martellante e l’aurea molto più sofferta del pezzo. Prendendo spunto da questo pezzo, è da rimarcare come l’uso della tastiera nei Sabaton sia così diversa da atri gruppi del filone. Infatti mentre in altre band questo strumento viene utilizzato in maniera più virtuosa (vedi Stratovarius e Sonata Arctica per esempio, che amano riempire le loro composizioni di assoli di tastiera iper-veloci), i Sabaton scelgono di usarle per “irrobustire” il loro sound, quasi fossero una chitarra aggiunta.
Ci sono purtroppo numerosi episodi meno convincenti nel disco come Cycle Of Songs, The Duellist (che sembra far troppo le veci di un brano come Shiroyama, oltretutto trattando lo stesso topic dei Samurai), o anche come I,Emperor che per quanto godibile poteva essere sicuramente più interessante e originale considerando il fatto che stiamo parlando in una composizione che narra delle gesta di Napoleone Bonaparte.
In conclusione Legends è un disco formalmente ineccepibile: produzione stellare, suoni incredibili, copertina straordinaria (una delle più belle mai concepite dalla band), una ricerca storica dietro le liriche come al solito fatta con passione e dedizione… eppure si intravede una certa staticità sonora e una stanchezza compositiva che i Sabaton raramente avevano mostrato nella loro discografia. Intendiamoci, il disco rimane buono, ma allo stesso tempo si ha la sensazione che la band abbia partorito un album riuscito a metà, con qualche filler di troppo, con diverse buone canzoni ma senza raggiungere quelle vette che ci hanno fatto innamorare e commuovere ascoltando la loro musica (pezzi come Christmas Truce, 40:1, The Price Of A Mile, The Uprising… la lista potrebbe andare avanti per ore). Un disco più di mestiere insomma, piuttosto che nato da una reale e genuina ispirazione artistica, dove purtroppo non mancano troppe soluzioni sonore “già sentite”, che per un fan navigato della band potrebbe essere un problema. In ogni caso, un consiglio agli anglofoni per gustarvi pienamente il disco: comprate la “Storyteller’s Edition” con tanto di narrazione e sparatevi l’album su un buon impianto stereo (questo vale per tutti gli ascoltatori). La produzione stellare e l’impatto sonoro di questo lavoro vanno assolutamente valorizzate al massimo.





