Recensione: Life Among The Ruins

Di Cristian Marchese - 14 Novembre 2005 - 0:00
Life Among The Ruins
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Anno: 1993
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80

OK! Non siamo davanti ad uno di quei capolavori che questa band, purtroppo sconosciuta per molti giovani metaller, ha saputo offrirci sia negli anni precedenti che in quelli a venire, ma vi assicuro che recensire un disco con questo nome, fa venire quantomeno la pelle d’oca.
Sì, perchè con gli occhi di oggi noi possiamo vedere la magnificenza racchiusa in “The marriage of heaven and hell part I & part II”, in “Invictus” ed in “The house of Atreus act I & II”, ma nel 1993, dopo cinque anni di oscuro silenzio, anche il disco a detta di molti “mediocre”, sembrava un miraggio. Miraggio giustificato soprattutto se si pensa che il lavoro in questione vada di pari passo con le inflessioni che anche altre Metal band avevano adottato al tempo; se si pensa che aiuti la band a riproporsi su di un mercato sempre più spietato, (non dimentichiamo la crisi che la corrente Heavy ebbe in quegli anni a causa dell’esplosione commerciale del grunge); ed infine, se si pensa che serva come scusa al riaffacciamento dell’ensemble in sede live.
Platter questo, che rende implicitamente pubblici i problemi relazionali e lavorativi con Zoran Busic, produttore condiviso per anni con gli storici Saga.
Ecco quindi che una line up, anche se arricchita al basso con un certo Rob De Martino (che ritroviamo poi nell’ultimo lavoro dei Rainbow) che vantava collaborazioni con un cert’altro Bobby Rondinelli (ex Rainbow, Doro e Black Sabbath), riesce a fatica a trovare la formula giusta per eguagliare capolavori precedenti quali, “Guardians of the flame”, “Noble savage” ed “Age of consent”. C’è da dire anche che la linea musicalmente intrapresa dai nostri, come accennato precedentemente, NON presupponeva a priori trionfi epici in fornaci metalliche, cosicchè l’album risultasse quanto più commerciabile possibile.
Insomma un onesto ritorno in punta di piedi dopo cinque anni di stop.

“Life among the ruins”, titolo che crea un connubio perfetto tra quello che i Virgin Steele rappresentavano e le difficoltà che dovevano affrontare in quel periodo drammatico per la loro carriera, si presenta comunque come un buon album, che al di là delle scelte sonore diametralmente opposte da cio che la band aveva sfornato fino a quel momento, convince, almeno in parte, i metalkid più perspicaci che avevano capito che gli anni ottanta erano ormai finiti da tempo.
L’album si presenta così come un disco dalle forti predominanze commerciali dell’AOR più semplicistico.
Ecco che sotto quest’ottica l’impatto roccioso quanto melodico di “Sex religion machine” è la giusta scusa per annuire con il capo e battere le dita per tutto il resto del disco. Cè da considerare poi il piacere provato sentendo un pezzo ad esempio come “Love is pain”, il più Hair Metal che i Virgin abbiano potuto elaborare durante tutta la loro storia, ma che ci dona sensazioni sulle quali artisti come Bon Jovi hanno costruito un’intera carriera.
Così, beffardo delle orecchie più critiche e forte dell’essere un unico episodio etichettato come “flop”, ma che “flop” proprio non è, la fatica dell’ “Acciaio vergine” continua decisa irrobustendosi ed arricchendosi una traccia dopo l’altra, portando sulla sua strada un ascoltatore a questo punto spiazzato sì, ma anche decisamente divertito.
Tutto questo accade grazie ad episodi di notevole spessore quali “Invitation” che funge da elegante inframezzo di piano tastiere e voce per la track successiva, “I dress in black (woman with no shadow)”, buio ed ennesimo capitolo dal testo sensuale ed erotico; “Never believed in good bye”, una ballata smielata ed azzeccatissima da dedicare alle ex per una ripassatina; “Cry forever”, altra ballata stupenda, questa volta però storica per i Virgin, e presente anche nella rimasterizzazione di “Age of consent”; ed a fine lavoro quella “Last rose of summer”, in cui David Defeis esprime tutta la sua melodicità e la sua padronanza nei falsetti che lo hanno reso celebre.

Il verdetto finale, per questo disco che continuo a ripetere NON è catalogabile come un qualsiasi altro disco dei Virgin Steele, non deve essere a mio avviso cinico e di strette vedute, tutt’altro: dobbiamo riconoscere, in questo immane sforzo da parte di Defeis, la voglia di risorgere più forte di prima come l’Araba Fenice. Ed oggigiorno sappiamo tutti che l’intento è riuscito a pieno.
Intanto aspettiamo la nascita di Lilith.

BY THE GODS!!!

Tracklist:

01 – Sex religion machine
02 – Love is pain
03 – Jet black
04 – Invitation
05 – I dress in black (Woman with no shadow)
06 – Crown of thorns
07 – Cage of angels
08 – Never believed in goodbye
09 – Too hot to handle
10 – Love’s gone
11 – Wild fire woman
12 – Cry forever
13 – Haunting the last hours
14 – Last rose of summer

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