Recensione: Lion and Queen

Di Stefano Usardi - 2 Agosto 2016 - 10:45
Lion and Queen
Band: Great Master
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2016
Nazione:
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75

Sarò sincero: dopo i primi distratti ascolti di questo “Lion & Queen” avevo una mezza idea di passare ad altro, liquidando il terzo lavoro dei Great Master come un’opera bellina ma indigesta, troppo carica di orpelli ed orchestrazioni per incontrare i miei gusti; macinando gli ascolti nei giorni successivi, invece, mi sono accorto di quanto mi fossi sbagliato inizialmente, forse tradito da tanta abbondanza sonora, e soprattutto di come ogni cosa in quest’album andasse pian piano al suo posto, ritagliandosi pazientemente il suo spazio. Che dire: questo “Lion & Queen” è un gran bell’album, magniloquente ma non ampolloso, degno erede del precedente “Serenissima” e definitiva conferma delle qualità di questi “ragazzi” che, grazie anche ad un nutrito gruppo di ospiti (SY, Francesco Russo, Andreas Martin Wimmer e Alessandro Battini, per dirne qualcuno), ci propongono un’ora di ottima musica.

L’intro d’ordinanza “Voices”, col suo sapore quasi mediorientale, cede presto il passo all’arrembante “Another Story”, maestosa e martellante, carica di melodie eroiche e cori sontuosi impreziositi da un bell’assolo di Gianluca Carlini (chitarra) che si fonde ottimamente col resto del brano: quattro minuti abbondanti di acquolina alla bocca. La successiva “Oldest”, invece, punta maggiormente sull’enfasi attraverso un approccio più declamatorio di Max Bastasi (voce) nel ritornello e, soprattutto, grazie al maggiore peso specifico dei cori, che qui forse peccano un po’ di eccessiva preponderanza. Ad ogni modo anche questa traccia procede a velocità sostenute, scandite dalla sezione ritmica affidata a Marco Antonello (basso) e Massimo Penzo (batteria) che per tutto l’album non sbagliano un colpo. “Prayer in the Wind” lascia spazio alla vena più sognante e più classicamente power del gruppo, con aperture molto melodiche ed emozionali, cori anthemici e un assolo a suo modo struggente pur senza scadere nell’inutile patetismo.
Traveller of Time” riparte a spron battuto, snocciolando riff e melodie coinvolgenti per una cavalcata trionfale: solo a metà brano un breve rallentamento apre al fulminante assolo, per poi tornare al galoppo e chiudere in bellezza col finale corale. È il turno di “Stargate”, che si distanzia dal resto dei brani sentiti finora per via del suo incedere lento e solenne, nobilitato dall’ottima prova di Max. Il coro possente a metà del brano e il seguente solo, più sentito, donano più corposità alla traccia, che pur non essendo tra le mie preferite si lascia ascoltare senza annoiare.
Un cupo arpeggio introduce “Mystic River”, suite da undici minuti che, dopo una falsa partenza in cui sembra fare proprio lo svolgimento epico e solenne che già aveva contraddistinto “Stargate”, accelera improvvisamente e si tramuta in una traccia agile durante la quale il nostro Max duetta con Daniele Genugu dei King Wraith. Il brano alterna momenti sfarzosi ad altri più diretti evitando per buona parte della sua durata il temuto (almeno da me) effetto-Arlecchino*, terribile morbo che colpisce le composizioni dal minutaggio importante: è vero, forse ci sono un paio di passaggi non proprio riuscitissimi, ma a conti fatti il brano si dimostra solido e molto godibile.
Holy Mountain” ritorna alla velocità ed al brio di “Traveller…”, per una classica cavalcata dal gusto heavy-power e dalla melodia portante molto semplice ma altrettanto azzeccata, mentre “Time After Time” punta tutto su cori trionfalissimi e molto catchy, ma pur essendo entrambe molto carine non mi dicono più di tanto, risultando a mio avviso un po’ sottotono rispetto al resto dell’album che, va detto, vanta una qualità media piuttosto alta. “The Other Side” sembra una fusione tra le tracce precedenti che beneficia dei loro punti di forza pur smorzandone i difetti: la canzone offre una buona velocità e passaggi aggressivi (anche se in sottofondo) su cui si innesta una gran profusione di cori, il tutto condito con un ritornello decisamente pomposo. Niente male ma, secondo me, si poteva osare qualcosina di più.
Walking on the Rainbow”, per parte sua, inizia con un motivo medieval-gitano pompato a mille dal gruppo, che in breve lascia il posto a una traccia ariosa e melodica dominata dal duetto tra l’approccio quasi malinconico di Max e quello più graffiante e stradaiolo di SY degli Armonight. Anche questa canzone secondo me procede abbastanza bene ma non colpisce a fondo limitandosi al compitino, con le voci che si intrecciano e si alternano piuttosto spesso ma non si completano a dovere. Pazienza, anche perché adesso arriva la title-track a chiudere l’album, partendo in quarta e dispensando a piene mani melodie incalzanti, cori solari e una batteria agguerrita, il tutto sostenuto egregiamente dal lavoro di chitarre e tastiere molto ben dosate: gli assoli disseminati lungo la traccia, dal sapore molto rockeggiante, non fanno che impreziosirne la trama sonora senza risultare invadenti. Un ottimo pezzo, insomma, per concludere più che degnamente un prodotto di caratura superiore alla media di cui, certamente, i nostri baldi veneziani possono andare orgogliosi.
Pollici alti e continuate così.

*Per chi se lo fosse chiesto, quello che definisco effetto Arlecchino è quel fenomeno per cui, in genere in una lunga suite, i vari momenti della canzone non risultano molto organici e finiscono per far sembrare il componimento come un semplice collage di brani diversi tenuti insieme in qualche modo, come (per l’appunto) le toppe del vestito di Arlecchino.

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