Recensione: Long Day Good Night

Di Matteo Bevilacqua - 5 Novembre 2020 - 12:16
Long Day Good Night
90

Graditissimo ritorno di uno dei maggiori gruppi portavoce del prog. metal americano, un nome fondamentale che assieme ai Queensrÿche ha letteralmente dato vita al genere. Long Day Good Night è infatti il tredicesimo studio album per i Fates Warning e ne avevamo sentito la mancanza, veramente, dopo quattro lunghi anni dal precedente Theories of Flight, che aveva colpito nel segno convincendo pubblico e critica. A onor del vero, c’è da dire che, viste le modalità circa i tempi di consegna tipiche di Matheos e soci, l’attesa stupisce ben poco. Risale a febbraio 2019 (data in cui la band firma nuovamente con Metal Blade) la prima dichiarazione su un nuovo album, seguita da numerosi aggiornamenti di work in progress da parte di Joey Vera tra dicembre 2019 e maggio 2020.

Altro aspetto cui la band ci ha abituati da sempre è quello dell’artwork di qualità e questo platter non è da meno. L’immagine surreale colorata a pastello ci porta con sé nel territorio del sogno e potrebbe tranquillamente essere inserita in un’esibizione surrealista assieme ai vari Delvaux e Dalì. Spesso si tende a sottovalutare l’importanza dell’immagine di copertina che, se ben realizzata ha un potere evocativo tale da mettere l’ascoltatore là dove dovrebbe essere, in uno stato di concentrazione superiore. I Fates Warning raramente commettono questo errore…

Evocativo come l’arwork l’attacco di “The Destination Onward” che parte in maniera lenta ed elegante. Inutile, tuttavia, adagiarsi sull’atmosferico in quanto il brano esplode subito dopo con un riff potentissimo. Questa è una opener con i fiocchi, squisitamente old school: la sensazione a pelle è quella di trovarsi a metà strada tra gli Armored Saint (ovvio rimando data la militanza di Joey Vera nei Saint) e i Riot. Il brano in definitiva è un omaggio alla NWOBHM e al metal classico (da cui i Fates Warning sono partiti nel lontano 1984) e colpisce al primo ascolto. “Shuttered World” inizia con un bel riff articolato che non ha nulla da invidiare a Michael Romeo dei Symphony X e invita subito a un headbanging furioso. La prova vocale di Ray Alder è superlativa, niente da aggiungere in merito. Senza voler entrare troppo nel nostalgico, l’old school che trasuda da ogni poro di questo brano e dell’album in generale è davvero un piacere per l’ascolto in quanto ripropone un tipo di produzione quasi scomparso, affossata dal perfezionismo digitale tipico delle produzioni attuali (qualcuno ricorderà le dichiarazioni di Mikael Åkerfeldt degli Opeth nel 2012 che avevano suscitato un bel vespaio). Il tocco di sudore, lo sporco, l’imperfezione tipica di chi suona per davvero rende invece il nuovo lavoro dei Fates Warning un’esperienza autentica.

Con “Alone We Walk” entriamo in territori decisamente più prog a partire dal tempo irregolare in 7/8, che quasi non si nota, e ci accorgiamo di essere al cospetto di chi sa il fatto suo in quanto a composizione e arrangiamento. Quando parte la furia di Bobby Jarzombek dietro alle pelli, davvero pesante e diretta, è quasi impossibile trattenere l’headbanging. Lo splendido assolo di chitarra completa questa gemma assoluta. Segue “Now Comes The Rain” in cui il gusto melodico è tale da ricordare capolavori intramontabili come “Eye To Eye” di Parallels. Il brano parte con un incedere essenziale fino a quando sopraggiungono i tipici layer di chitarre sovrapposte che impreziosiscono il giro armonico. Anche il ritornello è immediatamente orecchiabile e accattivante con i cori che si sposano alla perfezione. Il brano si incattivisce in vari punti ampliando così il range dinamico e regalandoci un’altra prova d’effetto.

Una menzione particolare per “The Way Home”, brano che vincerebbe a tavolino il vecchio test dello scorporare gli strati e ridurre il tutto alla semplice chitarra e voce per valutarne la qualità. Tanta classe e scelta di accordi azzeccata. La prima parte è una splendida ballad, scritta e arrangiata come si sarebbe fatto negli anni ’90, poi però si cambia registro e si entra nel prog strumentale che mantiene l’ascoltatore attento e pronto a ciò che verrà a colpire nel segno. Il ritornello è da cantare a squarciagola e la parte strumentale che subentra (con assolo di chitarra spaziale) viaggia su armonie non convenzionali. Ascoltando “The Way Home” cadranno il velo di ghiaccio e gli ultimi dubbi, tipici degli ascoltatori più attenti e pronti alla critica. “Under The Sun” presenta un feel decisamente pop, senza mai mancare di classe. Il ritornello non lascia scampo e i cambi di accordi stupiscono nonostante l’apparente semplicità del brano. La successiva “Scars” convince meno: l’attacco è diretto, con un riff agguerrito e senza compromessi ma la dinamica resta sullo stesso range per tutto il brano senza veri e propri picchi. Tutto questo fino all’ottimo breakdown con chitarre spagnoleggianti che creano finalmente dello spazio per crescere in modo che l’esplosione successiva sia d’effetto (il tipico “prima mettere meno per avere di più dopo”). La sezione ritmica è davvero precisa, forse il punto debole è rappresentato dalla performance vocale, meno ispirata rispetto allo standard. Permettendomi una considerazione assolutamente personale, come per alcuni album passati (incluso il celebrato A pleasant shade of gray, i fan non me ne vogliano), nonostante l’elevata qualità sia del songwriting sia dell’esecuzione, in questo brano si percepisce il già citato velo di ghiaccio che separa l’artista dall’ascoltatore, quello che impedisce di tuffarsi nella musica al 100% e perdersi in essa…

Siamo arrivati a “Begin Again”, dove il gruppo sembra volersi concedere una pausa e lo fa con stile e in maniera inaspettata con un bel groove di batteria e chitarra (che a tratti ricorda i Rage Against The Machine). L’esperimento riesce alla perfezione, spezza davvero bene col resto del disco e tiene l’ascoltatore attento. La nona canzone in scaletta è “When Snow Falls”, pezzo che accosta chitarre con delay a un groove elettronico e una voce sofferta, per creare un’atmosfera dark, sorretta anche da un vibrafono. La successione armonica è essenziale ma poco importa perché l’ascoltatore rimane come ipnotizzato, e citando il testo “attraverso l’oscurità dobbiamo trovare la via di casa“. Un assolo di gilmouriana memoria si adagia meravigliosamente bene sul brano più sorprendente del disco finora. “Liar” presenta un riff potente e per certi aspetti strizza l’occhio ai Tool: il cervello inizia appena a comprenderne l’essenza quando un cambio di tonalità per il ritornello spiazza l’ascoltatore. Non facciamo in tempo ad abituarci, però, perché il riff iniziale torna a tormentarci ed allora ci ritroviamo a scuotere la testa. Splendido il gusto chitarristico nell’assolo, traccia dopo traccia l’album convince sempre di più.

Gli ultimi tre brani sono appannaggio della magnifica mini-suite conclusiva. Nonostante l’attacco d’impatto, propriamente heavy metal, “Glass Houses” rappresenta infatti un nuovo anello debole della catena: colpevoli ancora una volta le linee vocali che spesso tendono essere autoreferenziali finendo per assomigliarsi un po’ tutte. Detto questo, il brano è potentissimo e l’assolo è rapido e gustoso. È “The Longest Shadow”, invece, a ritagliarsi lo spazio che si merita – ben 11 minuti –  in calce all’album. L’attacco è affidato a una chitarra quasi jazz, che subito offre lo spazio a un riff ostinato, seguito poi da un assolo di basso; segue un groove incalzante e un nuovo assolo… Tutto promette davvero bene dandoci la sensazione che durante nei minuti successivi tutto possa accadere. Gli strati aumentano, su tutti un leggero comping con chitarra wah, mentre il gruppo inizia a suonare coeso ed emerge la figura di Matheos, le cui doti chitarristiche sono state da sempre sottovalutate. Ecco comparire le chitarre distorte ed ecco l’esplosione tanto attesa: in maniera completamente spiazzante si passa dal groove/ jazz a un metal quasi sinfonico. Ancora una volta, è veramente un piacere sentire la produzione non troppo patinata: la mente torna indietro ai suoni tipici di un passato non troppo lontano che i Fates Warning, quasi ignari dei trend, non hanno mai abbandonato. Poco dopo la metà del brano sentiamo un Ray Adler in piena forma che ci regala la performance della vita: la voce è calda, potente e convincente. Un bellissimo momento drum and bass lascia spazio a quelle che sono le chitarre più pesanti e contemporanee del disco e che culminano in un assolo stellare. Il finale ci lascia a dir poco a bocca aperta. “The Longest Shadow”, dunque, è sicuramente un brano da ascoltare molte volte e interiorizzare, tuttavia convince già dal primo ascolto. Questo è prog. metal, quello dei maestri che hanno ancora molto da insegnarci. Ancora in cerca della mandibola caduta a terra, e sperando che non si tratti davvero dell’ultima canzone, ci lasciamo coinvolgere dalle chitarre acustiche di “The Last Song”. Peccato che la sia un pelino troppo essenziale e fredda per cui il finale lascia l’amaro in bocca rispetto al livello molto alto di tutto il disco.

Tirando le somme, “Long Day Good Night” è un gran bel lavoro, realizzato e suonato da una di quelle band il cui punto forte è l’unione e l’affiatamento reciproco. Non esiste individualismo in quanto tutte le pedine si incastrano perfettamente compiendo un lavoro superiore alla media. È quanto mai ovvio che stiamo ascoltando un gruppo datato (nel senso buono del termine), ma il combo americano non punta né a un effetto nostalgia né tantomeno cerca di tenersi al passo coi tempi in modo derivativo. I Fates Warning si limitano semmai a fare quello che sanno fare meglio, scrivere splendide canzoni, suonate come Dio comanda. Tutto qui. Pare una banalità, ma sappiamo tutti che una tal banalità è un lusso riservato a pochi. Buon ascolto.

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