Recensione: A Pleasant Shade Of Grey

Di Alessandro Marcellan - 25 Settembre 2002 - 0:00
A Pleasant Shade Of Grey
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Anno: 1997
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95

I Fates Warning sono una di quelle band che non potranno mai essere comprese appieno dalle masse nella loro genialità, destinate in esclusiva ad un’elite di privilegiati ascoltatori. Eppure il gruppo capitanato dall’ingegnoso chitarrista Jim Matheos va individuato come uno dei progenitori del prog-metal anni’90 (e a buon diritto il sito ufficiale titola: “F.W. – Seminal progressive metal band”), tanto che i Dream Theater, considerati -a ragione o a torto- come i capofila del settore, non mancano mai nelle interviste e nei credits dei loro dischi di citare i Fates fra le loro principali fonti di ispirazione.

Dopo un inizio di carriera all’insegna del metal di stampo maideniano (ma già con varianti degne di attenzione), i nostri hanno gradualmente personalizzato il loro sound rendendolo sempre più “progressivo”, nella vera accezione del termine, ovverosia indirizzandosi più all’inventiva e alla sperimentazione che ad ostentati funambolismi strumentali. Orbene, l’apice compositivo in questa parabola ascendente è rappresentato da “A pleasant shade of gray”, per chi scrive il vertice assoluto del prog-metal moderno.

Pubblicato nel 1997 e prodotto da Terry Brown (già produttore dei mitici Rush tecnologici dei 70’s), l’album in questione consta di un’unica canzone di 53 minuti (!) suddivisa in 12 movimenti, i quali (diversamente da quanto tentato più di recente dai D.T. di “Six degrees…”) risultano fra loro assolutamente inscindibili, in quanto legati fra loro musicalmente oltre che da un concept di sconfinata profondità ed impegno.

“What else can we say? When the lines are all drawn, what should we do today?”: il sogno, l’illusione, il pensiero di quell’attimo fuggente, di come sarebbe stato se avessimo agito diversamente…e poi i sensi di colpa che accompagnano l’amaro e malinconico ritorno alla realtà: una possibile descrizione ci viene fornita, parole e musica, in questo viaggio nell’inconscio dove le melodie fungono da vera e propria colonna sonora. Le note di una chitarra pulita, quasi minimale, precedono l’inquietante intro della Part I, dove Alder recita su un magnetico tappeto di tastiere (suonate da un certo Kevin Moore…), a cui fanno seguito i toni elettrico-sintetici (con tanto di voce filtrata) della Part II. La Part III, fra arpeggi e chitarre distorte (ma segnalerei anche lo splendido basso di Joey Vera), ci riporta invece su sentieri più prossimi ai Fates di “Parallels” e “Inside out”, mentre con le Parts IV-V fanno capolino sonorità più familiari ai fans di Portnoy e Co.: cambi di ritmo, tempi dispari (con il maestro Zonder impegnato ad impartire lezioni di batteria), intrecci chitarra-tastiera e quant’altro. I ritmi rallentano con le melodie sognanti della Part VI (nel mezzo anche un emozionante assolo di Matheos, che potrebbe ricordare qualcosa dei migliori Queensryche), e alla fine di questa si riparte con il tema iniziale dell’album, dapprima su una base ancora rilassata, poi (in avvio della Part VII) con il furioso pianoforte di Moore. Segue la strumentale Part VIII, dove segnalerei il fantastico duetto fra pianoforte e chitarra classica (che ha qualche analogia con il grande Oldfield di “Tubular bells” e, più di recente, con alcuni passaggi degli ottimi Shadow Gallery di “Carved in stone”), mentre il momento acustico di quella che potrebbe sembrare una malinconica ballad (Part IX) e la seconda reprise, stavolta più minacciosa, del tema principale (Part X), fanno da specchietto per le allodole, dato che con la Part XI arriva il momento più duro del disco (e qui Alder tocca vette altissime, come ai tempi di “No Exit”). Il finale (Part XII) si apre invece con toni sommessi, direi quasi struggenti, poi un crescendo ritmico con cadenze ancora una volta assolutamente non convenzionali, prima della conclusione che, dopo aver ripreso l’inquietudine del concept iniziale (“So where do we begin?”…), viene affidata a Matheos, il quale riesce ad emozionarci con una sola nota ripetuta e anticipa (quasi ne fa il verso: come il maestro Chopin in un celebre preludio…) il rumore della pioggia….

“…And with hope in our hearts embrace this shade of gray, this pleasant shade of gray”: lasciatevi avvolgere da questa piacevole ombra di grigio, e da una classe cristallina che in questo capolavoro emerge, inequivocabile, ancor più che in passato.

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