Recensione: Mangled By The Machine

Di Stefano Burini - 25 Agosto 2013 - 15:21
Mangled By The Machine
Band: Ape Machine
Etichetta:
Genere: Stoner 
Anno: 2013
Nazione:
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70

Nonostante un monicker magari poco conosciuto, gli statunitensi Ape Machine giungono, con il presente “Mangled By The Machine” (letteralmente “maciullato dalla macchina”), al non indifferente traguardo del terzo album sulla lunga distanza.
 
La band si compone di quattro elementi (Caleb Heinze alla voce, Ian Watts alla chitarra, Brian True al basso e Damon Delapaz alla batteria) e propone un ibrido di hard settantiano e stoner valvoloso alla maniera dei maestri Kyuss. La voce di Heinze è, tuttavia, decisamente differente da quella ruvida e rabbiosa di John Garcia e quasi sempre impostata su tonalità acute e pulite; sicché l’impatto sonoro degli Ape Machine è decisamente differente da quello più cupo e grintoso tipico della band di Josh Homme e, in più d’un’occasione, la mente torna ai Wolfmother più stoned.
 
Un track by track, per un album di questo tipo, risulterebbe difficile e, anzi, addirittura inutile. Tutte le canzoni si giocano, infatti, sulle stesse identiche coordinate in termini di riffing, sonorità, velocità e vocalismo, bandendo qualsivoglia rallentamento o concessione alla melodia ed evidenziando ancor più l’unitarietà del tutto andando, volutamente, ad interconnettere tutte le tracce presenti, quasi fossero i dieci movimenti di un’unica lunghissima suite. Inutile rimarcare che se questa scelta ha in sé, da un lato, indubbiamente una certa potenza visionaria e di significato,
dall’altro lato si deve, tuttavia, fare i conti con altrettanti limiti legati alla scarsa fruibilità di quasi quaranta minuti “in monoblocco” con pochissime variazioni sul tema.
 
Per i fanatici di queste sonorità potrebbe essere un problema tutto sommato relativo, anche a fronte della qualità musicale della proposta, della perizia tecnica, della cura per i dettagli e dell’indiscutibile conoscenza della materia (aspetti che si vedono in particolare nella title track o nella successiva e veramente ben riuscita “Ruling With Intent”, nelle quali si fanno strada un Hammond di discendenza purpleiana ed efficaci vocals filtrate). Tuttavia decidere di separare le tracce e, ancor meglio, di inserire qualche piccolo, ulteriore cambio di ritmo/tonalità si sarebbe potuta rivelare una mossa probabilmente vincente.
 
Insomma, un album con della qualità musicale oggettiva eppur penalizzato da alcune scelte discutibili in termini di fruibilità; metallaro avvisato…

Stefano Burini

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