Recensione: Meridies

Di Marco Migliorelli - 14 Giugno 2011 - 0:00
Meridies

Avi. Nobili avi sono alle spalle di questo disco. Prima ancora che al più remoto “Cantus”, forgia del black calato nel bronzo, mi riferisco all’illustre demo che circolava, anno 2008, nelle redazioni del settore e che rivelava ben tre dei cinque brani che vanno a costituire il mosaico di “Meridies”. L’approdo, questo demo, lo trovò qui fra le parole di Daniele Balestrieri, corazzate del più legittimo entusiasmo. L’esito finale, ad oggi, è quello di un discorso musicale che esce dalla forgia di “Cantus”, forte di un black ancor più bronzeo, luccicante, elaborato eppure tale da non impedire a tratti accostamenti è il caso di dirlo, pindarici e quanto mai pertinenti, a gruppi più blasonati del genere come gli Enslaved di “Eld”, ascoltare per credere.

Cinque brani lunghi, mai prolissi con una chiosa imprevedibile e significativa: Ithaca. Intensa e placida strumentale che ha il dono della risacca lieve dopo i marosi. Ithaca è l’isola, immagine prima di un gruppo che è nato circondato dalle onde e abile nel decifrare fra gli scogli della Trinacria, i segni del vento e della salsedine. L’accostamento è importante, il tuffo nel passato è deciso, a ritroso. Ecco allora che “Meridies” è nella duplice accezione del latino, il Meridiano ma anche il Meridione, il Mezzogiorno: terra lungamente fecondata dalla cultura e dalla sensibilità del mondo greco, secoli remoti che le dita abili dei LoD cercano acutamente fra gli accordi della loro musica.

 Le coordinate sono date, indicano con precisione una terra da cercare fra le lande del passato, che un genere come il black, – nell’opera della band sicula quanto mai poliedrico, sorprendente e fresco nelle sue evoluzioni – va ricercando. Il viaggio può iniziare.

Lascio ai più fini catalogatori l’onere di una definizione di genere ed all’intimità di ognuno l’individualità di un approccio emozionale con una sola anticipazione: sarà ricco, denso e sfaccettato.  E’ stato già scritto e giustamente, che il loro black ma abbandonarsi  al respiro dell’Epos e lo fa mescolando l’approccio a tratti ferale di un’epica primigenia, affidato alle caratteristiche più familiari del genere, ad un gusto alessandrino -quindi sempre attento alla cura dei particolari, delle rifiniture di suono-,  che fa di questi cinque pezzi dei veri e propri piccoli poemetti: degli epillii, ammiccando a Callimaco!

Dopo ripetuti passaggi, simili ad altrettante esplorazioni, l’ascolto potrà con più profondità dedicarsi alla dimensione del viaggio, altra caratteristica significativa di “Meridies”. Rimando alle parole di Fenrir considerazioni preliminari sulle canzoni del demo, quel che più interessa in questa sede è dar spazio ad una poetica e ad un discorso musicale personalissimo e coraggioso che attraverso gli ultimi due pezzi del disco va completandosi.

“Ek Pètras”, primo dei due brani inediti in tracklist (dell’altro, “Ciclo d’acciaio”, è disponibile solo un sample al profilo myspace del gruppo),  è uno stupendo esempio della dimensione epico-odissiaca del loro universo musicale. La bravura tecnica e la grande sensibilità  di questi tre musicisti è nella ricerca di molteplici approcci melodici: rifuggono le soluzioni più scontate e traggono dal black (che il cantato ed un drumming molto serrato risaltano con l’avallo indispensabile di una produzione cristallina e mai algida, fredda), una predisposizione totale alle soluzioni più eterogenee. Ne è un esempio l’apporto delle chitarre, mutevole a 360° e mai fuori contesto, capace delle soluzioni più progressive ma assolutamente senza soccombere all’imperio sterile della tecnica:  imponente infine nei momenti più sostenuti ed orfica, evocativa quando le dita non stringono più il metallo ma titillano le corde dei passaggi acustici.

Sublime il “doppio inizio” in Ek Petras, con la sensazione finale di una “canzone nella canzone”. L’acmè del brano si articola fra il decimo minuto e la sua conclusione: un universo di arpeggi riunisce i due momenti principali del pezzo mentre la chitarra elettrica con le sue note tenui e riverberate sembra letteralmente risuonare da una dimensione marina.

A voler definire con una immagine il sound dei LoD, potremmo dire, con pienezza di metafora, che si tratta di un “lavoro a sbalzo”: tecnica molti antica e diffusa anche nell’arte greca e romana, consisteva nel relizzare rilievi su sottili lamine di metallo “lavorandole dal retro”.

Allo stesso modo lavorano la canzone “da dietro, al suo interno”. Lavoro che viene  compiuto non solo con gli orpelli della chitarra acustica, instancabile ma anche del pianoforte e del violino che generano picchi di intesità struggenti;  in barba ai più facili sentimentalismi in cui il genere epico con tutto il suo bagaglio di tragicità e coraggio abitualmente inciampa fin nella polvere della scontatezza e del sottofondo.

Violini, violoncello, flauti: l’impasto sonoro è denso e “Ciclo d’acciaio”, secondo inedito di “Meridies” si rivela partitura capace di accogliere tutti i musicisti chiamati a collaborare: al bando le orchestrazioni campionate, ogni strumento trae voce dal tocco delle mani. “Ithaca”, metafora delle dolcezza e del coraggio ne è tutta intrisa.

Nei cori, l’ottima voce di Giulio Di Gregorio, scava profondamente  il Tempo come in “Sentenced to eternity”  o in “Ciclo d’acciaio”, suggestivo,  prima che al quinto minuto siano ancora le dita di Adranor a musicare, cantrici, sui tasti d’avorio; e poi il suo basso, mai veramente piegato agli andamenti della batteria né sommerso dalla densità musicale del brano, segno questo di una lucidità adeguata alla ricchezza della proposta musicale.

Assieme alla voce di Di Gegorio, s’alterna, vera padrona della scena, quella di Lord Inferos, mente scrivente e cantante del gruppo. La sua sfida, vinta completamente, è stata quella di inserire parti non irrilevanti in lingua italiana all’interno delle canzoni. “Ciclo d’acciaio”, riecheggiando l’indimenticabile “Solo sepolcri e cenere” nel precedente album, porta la nostra lingua all’interno della canzone fin dalla prima strofa:

“frammenti lontani/ di una sovrarealtà/per simboli e segni/lontani nel tempo/la mia chiave avrò”

E lo fa in modo convincente, pathico, evitando in un approccio drammatico il rischio della stereotipia e della poca credibilità, che non di rado sfociano nella pacchianeria. L’esecuzione è data da uno screaming potente e mai pastoso, capace di scandire melodicamente la strofa con partecipazione e nitidezza. L’esito, nella canzone, è destinale, incisivo.

“Meridies” vince l’alloro grazie soprattutto all’equilibrio fra questi due elementi significativi: la maestria dei tre opliti di Trinacria e di un gruppo di musicisti all’altezza delle partiture ed una ispirazione costante che non nasconde cura, amore, dedizione ed una capacità di “Vedere negli accordi”, latrice di immagini finissime.

“Meridies” è un disco che è nato nel tempo, richiedendone proporzionalmente all’ampio respiro delle sue composizoni, almeno il doppio. Concedetegli il vostro.

 Spezza le catene dei tempi di produzione, delle convenzioni di genere e degli stereotipi in cui molta musica incespica: ascolta il respiro dell’antichità che evoca e fa tesoro di tutto quel che l’orizzonte del mediterraneo può suggerire alla vista ed alla meditazione di questi tre ragazzi.

Vi attende un viaggio che tocca le vette dei più coraggiosi funambolismi a mezzo di una musica che sa farlo con delicatezza, mai preda dell’autocompiacimento che potrebbe indurre il pieno raggiungimento di una meta creativa così ambiziosa.

E’ triste constatare che un disco come “Meridies” non sia nel normale circuito della distribuzione e che il suo illustre predecessore “Cantus” sia pressocchè irreperibile. Ben più amaro stupore desta poi l’inadeguata risposta del settore ad una proposta musicale di simile valore. Riprendo con rabbia le parole di Fenrir: “gruppi del genere dovrebbero guidare il mercato, a differenza delle migliaia di band copycat che circolano tra le major semplicemente perché provengono da paesi più progressisti o perché hanno le conoscenze giuste”. E la sottoscrivo con decisione.

Questa musica trova solo nell’ascolto, attento e soprattutto appassionato la via più degna e piena  per farsi conoscere. Non teme gli ascolti; e quanto scritto qui va solo a puntello simbolico di un discorso musicale affascinante e in se realizzato in ogni sua più alta aspirazione.

L’esortazione, appassionata e convinta, oltre che –concedetemelo- imperiosa è quella di contattare quanto prima il gruppo (disponibilissimo nella persona di Lord Inferos) e far vostro “per poche dracme” un disco che esalterà chiunque abbia un minimo di apertura mentale verso un modo di rileggere il black metal, “trasversale”…che poi il discorso è sempre questo: “ci sono coloro che  seguono un genere nella sua più rigorosa fisionomia e coloro che confindano nella personalità degli artisti, disposti a seguirli e comprenderli, pronti a lasciare il porto sicuro dei generi”.

A tutti dico: andate “per l’alto mare aperto”, lungo il meridiano, giù, fino al mezzogiorno:

.Meridies.

Marco Migliorelli

(Fleba il Fenicio)

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TRACKLIST:

1.Sentenced to Eternity: 11.23
2.Ek Pètras: 14.11
3.Songs of War: 09.02
4.Ciclo d’acciaio: 10.53
5.Ithaca: 07.28