Recensione: Mestarin kynsi

Di Tiziano Marasco - 22 Aprile 2020 - 5:30
Mestarin kynsi
Etichetta: Nuclear Blast
Genere: Avantgarde 
Anno: 2020
Nazione:
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82

Il termine avantgarde è forse abusato e sicuramente lo si usa per etichettare bene o male qualsiasi cosa, preferibilmente di matrice black metal, che non si riesca ad inquadrare in maniera predefinita. Vale anche per gli Oranssi pazuzu? Probabilmente sì, se non altro per la difficile etichettatura. Il gruppo finlandese si è in effetti da sempre messo in mostra per uno strano black, atmosferico oscuro e sporcato con varie influenze. Tale componente black è tuttavia progressivamente andata sbiadendo, disco dopo disco, in favore di quella sperimentale, un altrettanto strano misto di psichedelia malata e krautrock.

Si era così arrivati, in una discografia in cui le parole ‘evoluzione’ e ‘coerenza’ erano sempre andate a braccetto, a uno dei vertici della band e, possiamo dirlo, del metal sperimentale e sbilenco dell’ultimo decennio: “Värähtelijä”, ovviamente. Da qui, quattro anni dopo, la band riparte, sempre fedele alle due paroline di cui sopra, e ci porta “Mestarin kynsi”. Un disco che, senza se e senza ma, parte proprio da dove “Värähtelijä” era arrivato. E va oltre.

Sei composizioni lugubri e sinistre, ripetitive, di minutaggio corposo (ma nessuna che arrivi ai 17 minuti) in cui la componente avantgarde sperimentale supera sempre più quella black classica. Anzi, a voler essere onesti, qui di black metal non ce n’è proprio, se togliamo le urla sgraziate e alcuni sparuti riff di chitarra. Nemmeno di prog ne troviamo, quindi qui tutto possiamo dire, tranne che ci troviamo davanti a un disco progressive black – psichedelia e progressive sono cose diverse. Di prog nemmeno l’ombra, ma di psichedelia ne troviamo parecchia. A partire dal riff che accompagna l’apertura di “Ilmestys”, passando per le reminiscenze settantiane di “Uusi teknokratia” fino ad arrivare alla lisergica conclusione di “Oikeamielisten Sali” e alla ‘colorata’ “Kuulen ääniä maan alta”, tutto l’album è un gigantesco acid test. Ma non di quelli che facevano i Grateful dead negli anni settanta. Qui l’LSD non fa proprio l’effetto classico di far sembrare tutto bello e far venir voglia di parlare col primo albero che ti viene incontro.

Qua le atmosfere sono sì da viaggio spaziale, ma attraverso luoghi inesplorati e molto sinistri. C’è una sequenza di atmosfere malate che dà al disco un caratteristico retrogusto black, molto più degli sparuti elementi effettivamente richiamabili al genere che ha avuto i natali in Norvegia. Questo effetto è infatti dato dallo strano rantolo vocale e dal massiccio uso di tastiera ed effetti elettronici, che ci proiettano in una successione di atmosfere inquietanti – “Tyhjyyden sakramentti” e “Taivan Portti” su tutti.

A livello complessivo dunque, l’album non è per niente facile da assimilare, sebbene tutti e sei gli episodi siano costruiti prevalentemente su un singolo giro di note. Anzi, il primo impatto durante l’ascolto è tutt’altro che positivo. L’idea prima è che gli Oranssi abbiano voluto strafare con la sperimentazione ed abbiano finito per portare su disco null’altro che un pantano cacofonico senza capo né coda. Servono ripetuti ascolti, almeno un paio dei quali dedicati all’album e non a fare altro, proprio come si faceva una volta, per iniziare a scoprire che l’album, apparentemente piatto, contiene una miriade di sfumature sonore.

La ripetitività non aiuta per niente ad assimilare o a ricordare i pezzi. Non aiuta nemmeno il fatto che le due composizioni di apertura siano le più ‘normali’ e dunque anche un po’ più deboli rispetto alle successive. Ma dopo qualche ascolto si inizia a notare un’infinità di sfumature. Sicché nell’arco di una o due settimane l’idea su “Mestarin kynsi” è completamente diversa da quella iniziale, e il cambiamento è tutto positivo.

Ci troviamo davanti ad un disco di élite e non destinato al primo che passa. Un disco molto complesso e difficile da capire (cosa che per chi scrive va in controtendenza con gli episodi passati dei finnici). Un disco molto Oranssi pazuzu ma pure sempre più psichedelico. C’è qualcosa di sentito poche volte – in qualche frangente ricorda da lontano certi passaggi di “Mayhem in blue” degli Hail spirit noir. In definitiva, “Mestarin kynsi” è, come il “Värähtelijä”, un disco di rottura. Ma è un disco assai poco immediato. Il valore reale lo comprenderemo col tempo. Risulta però palese e corrispondente al fatto che quella degli Oranssi pazuzu fosse una delle uscite più attese del 2020, ma la sua portata la comprenderemo solo nei prossimi mesi. Senza dubbio, un ottimo album di vero Avantgarde.

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