Recensione: Moksha

Di Daniele D'Adamo - 4 Marzo 2022 - 0:00

Dagli Stati Uniti ancora una proposta di technical death metal ammantato di atmosfera. Si tratta di “Moksha”, secondo full-length in carriera dei The Last Of Lucy.

Si potrebbe allora coniare il termine atmospheric technical death metal, ma solo per dare subito un’idea di ciò che si trova nel lavoro. Le definizioni lasciano il tempo che trovano poiché trattasi di classificare l’arte, operazione che lascia parecchio margine alla soggettività e discrezionalità, e anche in questo caso è inutile approfondire troppo un ipotetica discussione sul sotto-sotto-genere. Se non altro per non andare in confusione. Tuttavia, come appena scritto, l’artificio può rivelarsi idoneo, almeno, per affrontare l’ascolto del disco con un minimo di predisposizione, giusto per avviare il percorso con cognizione di causa e senza tentennamenti.

Dotare un’opera come “Moksha” di elementi idonei a creare l’aere sotto forma di inserimenti ambient e campionamenti (‘Ritual of the Abraxas’) è, almeno a parere di chi scrive, un’operazione importante per rendere meno freddo un sound che, per natura intrinseca, pur rivelandosi assolutamente perfetto in ogni sua parte, tende al gelo artistico.

Il combo californiano è sulla piazza da una dozzina d’anni e si sente. L’esecuzione strumentale è irreprensibile poiché si tratta di discutere di quattro ragazzi dotati di tecnica che dire eccellente è dire poco. Ciascuno di essi manipola il proprio ferro del mestiere con grande perizia. Compresa l’ugola di Josh De La Sol, scevra da difetti nell’interpretare le linee vocali di sua competenza con un tono stentoreo, potente, misto fra brutale growling e isteriche harsh vocals. Bilanciando alla perfezione (di nuovo…) il tutto per uno stile magari non originalissimo ma senz’altro complicato da tenere su, rispettando sempre e comunque le percentuali di ciascuna foggia canora.

Ovviamente anche gli altri compagni di avventura non sono da meno. Gad Gidon e Christian Mansfield macinano una ridda impressionante di riff che si rincorrono, si trafiggo vicendevolmente, si agitano come se percorressero le montagne russe (‘Parasomnia’). La sezione ritmica, di competenza dello stesso Gidon al basso e di Brandon Ian Millan alla batteria, eietta tempi complessi e mai uguali. Pattern arzigogolati che ruotano attorno al nucleo infuocato prodotto dalla sterminata energia dei blast-beats.

Tornando all’aggettivo atmosferico esso, reso visibile sul rigo musicale, consente al quartetto di Huntington Beach di sparare a raffica dieci brani il cui umore, percepibile con immediatezza, inspessisce – e non poco – l’anima dei brani medesimi. Circostanza non da poco, poiché essi manifestano un carattere marcatamente unico, consentendo di variare all’interno di un modus compositivo ben chiaro in ogni suo contorno, in ogni suo riflesso. La parte emotiva è percepibile con forza (‘Covenant’), dietro alla micidiale aggressività di canzoni devastanti fra le quali si menziona ‘Ego Death’, ove appare nitida, chiara, anzi esplosiva la capacità del gruppo di manovrare gli attrezzi della propria professione con disarmante bravura.

Ecco che l’LP, allora, assume una capacità non da poco di generare visioni di mondi lontani, persi all’interno del proprio Io come se tali mondi fossero minuscoli parti di multiversi, nella visione determinista degli atomi. Infinitamente grande, infinitamente piccolo.

I The Last Of Lucy riescono pertanto a dare alle stampe un platter, “Moksha”, ossimoro di se stesso; nel senso che all’interno della sua complessità realizzativa si trovano elementi, le canzoni, facilmente riconoscibili le une dalle altre. Regalandosi così una buona dose di longevità specificamente in ordine ai singoli episodi che lo compongono.

Gradita sorpresa.

Daniele “dani66” D’Adamo

 

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