Recensione: Multiverse

Di Emilio Sonno - 29 Maggio 2004 - 0:00
Multiverse
Etichetta:
Genere:
Anno: 1996
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88

Non sono in molti a conoscere il nome di questi formidabili e sottovalutatissimi Mourning Sign, però certamente di più sono coloro che conoscono la spartana copertina del loro incredibile Multiverse.
Non risulta infatti difficile trovare, in un qualsiasi negozio di cd, una copia di quest’album visto l’irrisorio prezzo al quale viene venduto; pensare che alcuni mailorder letteralmente lo regalano per soli 0,98 centesimi! Millenovecento lire del vecchio conio, per dirla alla Bonolis.
Ciononostante la suddetta band non sembra essere conosciuta e apprezzata che da una sparuta cerchia di attenti metallari; complice di ciò, la difficoltà nel trovare approfondite notizie su di loro, persino in quell’immenso archivio che è internet.
Per saziare la fame dei più curiosi tra voi, posso, più o meno brevemente, riassumere quanto elaborato dalle frammentarie, e per giunta di difficile reperimento, informazioni che ho raccolto, e che vedrebbero i nostri provenire dalla sempre gravida di talenti Svezia, direttamente dall’ormai lontano 1992, momento d’oro per geniali band, allora incomprese, quali Atheist, Cynic, Suffocation e compagnia bella.
Nati per volontà del giovane chitarrista Kari Kainulainen di formare, assieme ad alcuni amici, una band alla quale non dispiacesse miscelare stili fra loro differenti, esplorando quei nuovi confini che ad inizio anni novanta iniziavano appena a intravedersi, i M.S., nonostante l’incredibile talento, purtroppo non sono durati molto.
Dopo il 1996 non se ne sentiva già più parlare e in quei 4/5 anni di carriera avevano accumulato giusto tre release ufficiali costituite da un omonimo debutto, un interessante ep e il qui analizzato Multiverse, ultima testimonianza della loro tristemente breve storia.
Una storia promettente, ma divenuta breve a causa dell’etichetta, peraltro italiana, che avrebbe fatto loro una promozione scarsissima, prossima allo zero, limitandosi, a detta di Kari, a pubblicare i tre lavori e intrallazzando poco chiaramente con le royalties. Oltre che a fare molto onore al tricolore, il tutto è riassumibile nella schietta affermazione del leader: “Hopefully someone’s able to cast a bigger curse on them than we can”.
Se andrete a ripescare dall’orwelliano buco della memoria, nel quali sono stati rapidamente risucchiati, questo masterpiece, vedrete che d’impatto potrà rivelarsi ostico ai deathster più ortodossi.
Ma d’altronde si sa che le gioie immediate sono spesso passeggere, ecco quindi che ascoltando ripetutamente il platter, vi entrerete dentro, lentamente, sviscerandone ogni singolo frammento, lasciandovi pian piano ammaliare dalle sue mutevoli sonorità, ora forse all’ordine del giorno ma al tempo particolarmente innovative.
Già soltanto la forte predilezione per i connazionali Meshuggah, la dovrebbe dire lunga sul loro sound: un inebriante mix di sonorità che spaziano dal flamenco (sic!) al grind, passando attraverso thrash, folk, jazz, rock e molto altro ancora. Un brillante di rara bellezza, ovviamente incastonato su una cornice immancabilmente death: è la violenza, per l’appunto, l’elemento clou del tutto, che, a ogni buon conto, nelle sue tante forme, non ricalca mai gli estremismi del black, sottogenere assai poco apprezzato dal combo.
Parlare di ogni singola canzone non è stato mai utile come nel nostro caso: in ogni brano troverete inserti provenienti da generi tra i più disparati; ciascun episodio è un piccolo scrigno contente preziosità differenti di traccia in traccia, eppure sempre accomunabili sotto lo stesso inconfondibile trademark. Non è comunque mia intenzione elencarvi l’intero lotto. Vi basti sapere che con Just Another Jesus passiamo da sfuriate death/grind a intermezzi flamenco che richiamano alla mente una certa Voice of the Soul, che sarebbe arrivata solo due anni dopo, direttamente dall’altra sponda dell’oceano, per opera dei Death; Get Real ci accoglie, invece, con violino elettrico capace di ricreare atmosfere simil-medievali, vagamente celtiche.
Rimarrete, poi, sicuramente spiazzati, specie se non avrete letto quanto sto per dire, ascoltando Neerg: una song stravagante, quasi interamente narrata, ennesimo sperimentalismo di un gruppo che non conosce la parola “normalità”.
E’ forse la voce l’unico neo: non a tutti, specialmente ad un primo ascolto, piace la timbrica di questo misconosciuto Robert Porschke, che aiutato da tal P-O Saether, si lancia in continui giochi vocali, non mantenendo mai la stessa impostazione e variando da scream a growl, a clean vocal, magari aiutato da coretti thrash core come in Repent, o con parti quasi recitate. L’unico episodio che nel tempo può rimanere, proprio per questo motivo, indigesto è Subtle Climax, dove forse il singer azzarda pericolosamente, mantenendosi lo stesso entro i limiti consentiti.
Parlare di influenze a questo punto mi sembra inutile, e oltremodo limitativo, malgrado questo non vi sarà difficile scorgere tra le righe la lezione maideniana – acquisita attraverso le varie rielaborazioni di scuola swedish – la melodia degli At The Gates, la creatività dell’indimenticato Schuldiner, la prepotente irruenza dei migliori Fear Factory, la poesia degli Opeth… ce n’è per tutti i gusti insomma!
Dei formidabili precursori ai quali sarebbe quantomeno doveroso concedere una possibilità cosicché quanto di buono fatto non rimanga sepolto dalla polvere nel tempo.
Parafrasando un’autoironica uscita dello stesso Kari: “Multiverse is a damn good album”, questo il mio serio giudizio. Concludo confidandovi che insieme a Reign in Blood e The Sound of Perseverance forma la triade perfetta: tre album che non mi stancherei mai di ascoltare; e con questo ho detto tutto! Fate vobis…
Emilio “ARMiF3R” Sonno

Tracklist:
1. Just Another Jesus
2. I’ll Be Dancing
3. Subtle Climax
4. Repent
5. The Piper
6. Get Real
7. Seed of Revival
8. My Turn to Sleep
9. Temptress
10. Neerg
11. New Life

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