Recensione: The Great Conspiracy

Di Marco Tripodi - 2 Marzo 2020 - 9:00

A due anni di distanza dall’esordio solista con “Evil Deluxe“, Nils Patrik Johansson, già cantante dei Lions Share, Wuthering Heights, Astral Doors e Civil War, torna a farsi vivo con un nuovo album, addirittura un concept piuttosto coraggioso sull’assassinio del primo ministro svedese Olof Palme, avvenuto nel 1986 e che, a quanto si legge online, costituisce tuttora un nervo scoperto per gli svedesi. Anche per via del fatto che i contorni dell’omicidio rimangono avvolti nella nebbia a distanza di così tanto tempo. Come per Kennedy, sono in piedi varie teorie che vanno dal gesto del pazzo isolato alla vera e propria cospirazione. Guardate un po’ il titolo dell’album e non sarà difficilissimo farsi un’idea sull’orientamento dei testi di Joahnsson al riguardo. Per anni il singer scandivano ha scandagliato tutte le informazioni disponibili in materia, chiedendo sponda a Dan Hörning, esperto sull’argomento e autore di un podcast dedicato al caso. La formazione di cui Johansson si contorna è formato famiglia, non solo perché alla batteria siede il figlio Fredrik, ma anche perché il resto della band è composta da ex commilitoni dei Lions Share che sono transitati in varie poeche storiche in quella line up (oggi ridotta al solo Johansson più Lars Christmansson, il quale comunque partecipa con la propria chitarra anche qui, oltre che occuparsi di mixaggio e produzione). Compatti e coesi questi Lions Share alternativi si lanciano nella disamina dello scottante caso di cronaca politica (criminale), forti di un minutaggio che si attesta appena sotto i 50 minuti e mettendo in fila 10 tracce (in realtà 9 effettive, poiché la chiusa “Requiem Postlude” è sostanzialmente un’outro).

La timbrica vocale di Johansson, come è noto, è assai enfatica e maschia, siamo grossomodo dalle parti di un Ronnie James Dio leggermente più acuto e stridulo ma altrettanto grintoso. Date le premesse, ovvero una band avatar dei Lions Share, non sarebbe stato strano aspettarsi sonorità che andassero in quella direzione. Il che in parte avviene, soprattutto a livello di “metallitudine” borchiata e di strofe, il rimando regge, la parentela c’è. Magari la variante sarebbe potuta arrivare da un afflato più prog (vista anche l’architettura del concept), oppure da incursioni in territori più contaminati, avantgarde, modernisti o vattelappesca. Mi chiedevo in effetti cosa avesse comportato la necessità di far uscire l’album sotto un moniker differente da quello dei Lions Share. Presto detto, l’elemento novità introdotto da Johansson e soci è la melodia. Intendiamoci, non che i Lions Share non ne abbiano, anzi, ne vendono a pacchi, ma quella di “The Great Consipracy” va in un’altra direzione. Ascoltando canzoni come la opener “The Agitator” non possono non venire in mente i Gamma Ray e, per proprietà transitiva, i veri padri putativi di quel tipo di sonorità, ovvero gli Helloween. “One Night At The Cinema” ci aggiunge anche un pizzico di Running Wild, immaginatevi quel tappeto sonoro con sopra le vocals di Rolf Kasparek e ditemi che il pezzo non starebbe tranquillamente in piedi in un album dei pirati di Ambrugo. “March Of The Tin Foil Hats” gioca la carta del teatro, sempre di aderenza strettamente helloweniana ma certo è evidente come qui Johansson abbia cercato di infondere ulteriore corpo, dinamismo e personalità (barocca) al suo album, andando in cerca di atmosfere e suggestioni piuttosto plateali (tanto in senso letterale quanto metaforico). “The Baseball League” è forse il pezzo meno zuccheroso dell’intero lotto e quello che maggiormente richiama i Lions Share (non a caso è  probabilmente il migliore, o perlomeno il mio preferito). Anche “Prime Evil” tutto sommato è in sintonia con quanto appena scritto, ma qualitativamente il brano raggiunge traguardi meno entusiasmanti (con il chorus che alla lunga si fa lagnoso).

Killer Without A Gun” gioca sulla ripetizione un po’ sempliciotta dell’inciso contenuto nel titolo, creando un effetto che rende la canzone abbastanza fresca ma anche abbastanza “facile”, complice un quattro quarti di batteria bello dritto. La title track rissume in sé il mood dell’intero album, bel tiro, bel suono delle chitarre, strofe che danno potenza (e fin qui tutto positivo), un chorus che avrebbe beneficiato – secondo me – di maggior virilità ed asciuttezza (ecco l’elemento debole). La sensazione viene ulteriormente rimarcata dalla successiva “This Must Be The Solution“, ancora con quel sentore Gamma Ray che si riaffaccia periodicamente durante l’ascolto del disco. Diciamo che da territori prettamente heavy questi “altri” Lions Share si spostano più marcatamente sul power, aprendosi a qualche appiccicosità che rischia di rendere il songwriting, pur dignitoso, complessivamente meno interessante ed incisivo. Naturalmente se siete alla ricerca di un vigoroso album power, “The Great Conspiracy” potrebbe invece costituire una preziosa variante alle dolcezze accorate di stampo Freedom Call o Angra. Personalmente rimango in attesa del prossimo (vero) Lions Share, pur riconoscendo a Johansson di aver costruito un platter ambizioso e affatto banale, perlomeno a livello lirico e concettuale, essendosi fatto carico del caso Palme, e comunque gradevole all’ascolto.

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