Recensione: Norwegian Native Art

Di Daniele Balestrieri - 5 Maggio 2004 - 0:00
Norwegian Native Art
Band: Einherjer
Etichetta:
Genere:
Anno: 2000
Nazione:
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22

Assistere impotenti a uno spettacolo desolante come questo è davvero triste, e nessuno vorrebbe mai esserne parte. Né mai una band, né un fan, né un qualsiasi appassionato di buona musica. Eppure almeno una volta nella storia capita di assistere a una disfatta, e il nome che porta una delle cadute più rovinose del metal nordico è proprio quello degli Einherjer: pionieri, rappresentanti e vetusti condottieri del Viking metal, i nostri quattro norvegesi hanno accompagnato questo genere con album più o meno ispirati, dall’eccellente Far Far North al grezzo Dragons of the North, dall’ottimo Odin Owns ye All al puro, schietto e sincero Aurora Borealis. Che gli Einherjer non siano mai rimasti legati a una particolare espressione musicale non è un mistero per nessuno: in ogni album hanno tentato di variare, a volte lievemente, a volte un po’ più pesantemente, l’offerta al pubblico, e bisogna dire che sono quasi sempre riusciti a sfornare prodotti di una certa qualità, senza tuttavia trovare la via giusta per creare un album che li rappresentasse egregiamente.

È certo che la loro fetta di ammiratori sono riusciti comunque a conquistarla, grazie a un atteggiamento sempre positivo, a una gran voglia di trasmettere il loro essere discendenti del popolo vichingo e grazie anche a un certo feeling folk/viking che al tempo dell’uscita di album come Odin Owns Ye All era ancora una novità. Tutto a un tratto, poi, il buio, e il tonfo. Dopo un’attesa spasmodica dell’album killer, nel 2000 gli Einherjer piazzano sul mercato un nuovo album: Norwegian Native Art. Tutti i fans dell’epoca si trovarono leggermente spaesati al momento dell’acquisto: da Odin era cambiato praticamente tutto. Accantonato il precedente logo, la band sfornò una nuova immagine di sé, con un logo nuovo, tutto computerizzato, con un carattere banale e un fregio che invece di trasmettere una sensazione di antico trasmetteva solo un vago sentore di plastica e alluminio, a causa dell pesante uso di una computer grafica decisamente fastidiosa per un genere come il viking, che fa uso di armi come “concetto” e “attitudine” per distinguersi dal mero folk metal.
Assieme al logo, anche la band cambiò sistematicamente, comparendo sulla copertina vestita di pelle, completamente ricoperta di sangue rappreso, mentre osserva l’acquirente con sguardi famelici e ammiccanti, come se questo in qualche modo potesse comunicare una sensazione di oppressione, di epos, o chissà che altro. Anche il libretto non è da meno: senza classe né significato apparente, gli Einherjer si presentano pagina dopo pagina in posizioni ridicole, costantemente ricoperti di sangue, con sguardi da maniaci psicopatici. Questa presentazione lascia senz’altro interdetti, anche perché non avevano dato alcun segnale di tanto radicale cambiamento nel loro album precedente, né nelle loro interviste. A detta loro sarebbero “ritornati alle radici del popolo norvegese, quando era fiero e credeva negli antichi dei”. Dubito fortemente che gli antichi norvegesi si conciassero “fieramente” in quel modo nella vita di tutti i giorni.

Ma giudicare un disco dalla grafica è comunque un errore grossolano, anche se l’attitudine, specie nei generi di concetto, ha comunque un peso da non sottovalutare. Eppure, l’album rispecchia esattamente la confusione svilente comunicata dalla copertina. È faticoso persino capire da che razza di genere abbiano pescato per comporre le canzoni. Heavy? Black? Prog? Folk? Impossibile comprenderlo nel marasma di suoni sconclusionati che ci accolgono nella prima traccia, “Wyrd of the Dead“. Un riff iniziale – suppongo quello principale, ma posso sbagliare – invade immediatamente l’aria mentre con una certa originalità Rune inizia a cantare con la sua inconfondibile voce, quando a un certo punto… giunge il silenzio. Ricomincia il riff, ma con una specie di vibrafono. Silenzio. Il cantato riprende, stavolta corale. Interessante, uno direbbe, mentre già la mente fatica a sintetizzare ciò che ha ascoltato in soli dieci secondi. Poi il silenzio. Ricomincia il riff. Ma non è quello solito, è un altro riff, stavolta accompagnato da uno “spentolare”, come di una tavolata che attende il rancio. Silenzio ancora, quindi le chitarre partono in un turbinio incomprensibile, e attaccano degli odiosi giri di tastiera, completamente scorrelati dalla voce o dalla batteria: ogni strumento va tranquillamente per i fatti suoi, finché non ritorna il silenzio a mettere a posto le carte. E di nuovo, tastiera, cantato, silenzio. Tastiera, campanelli, silenzio. Quattro quarti, sei ottavi, rallentamenti, accelerazioni. Poi un assolo melodioso, iniziato dal nulla e proseguito nel nulla di un minuto che non racconta nulla, finché non ricomincia il rumoreggiare di sottofondo e la voce di Rune che fa accapponare la pelle, perché ricorda da vicino il cantato così appassionato di Odin Owns Ye All, qui come impazzito. Poi il silenzio, cambia la traccia. E già bussa alla porta ciò che si accompagna sempre alle cose spiacevoli: il mal di testa. La situazione non migliora con “Doomfaring“, e nemmeno con tutte le altre: ci troviamo di fronte a un misfatto, a un rotolare di tastiere onnipresenti, ossessionanti, per nulla ispirate, di accompagnamento a chitarre, basso, batteria, talmente irregolari, talmente confusionarie che sembrano costantemente fuori tempo, sempre drammaticamente interrotte nei momenti peggiori, mentre la band cerca di mettere insieme dei cori in ciò che si suppone siano ritornelli, ma che non sono altro che cambiamenti continui di discorso, ora assoli di clavicembalo, ora pezzi thrash, ora singhiozzi epic che precipitano dopo tre, quattro secondi nel brutal, e risalgono rallentati, cambiati, tra gli urli del cantante che concede persino una modulazione elettronica della propria voce in “Hugin’s Eyes“, ancora più imbarazzante proprio per l’uso del campionatore in buona parte della canzone. Mi intristice raccontare quanto insensate siano le scelte musicali di questo Norwegian Native Art, e potrei andare avanti ancora a lungo, disperandomi magari per gli ottimi pezzi in pianoforte di “Crimson Rain” rovinati da un contorno strumentale imbarazzante, da tastiere dove spadroneggia battuta dopo battuta il caro, ridicolo “orchestra hit”, che dovrebbe essere bandito dalla musica, e da un cantato che non si dimostra così duttile come gli Einherjer speravano.
Il rispetto che ancora nutro per gli Einherjer mi impedisce di andare oltre, tanto più che ormai credo di aver detto a sufficienza. Di questo album si salvano le briciole: “Draconian Umpire” è abbastanza interessante, e regolare nel suo incedere, sebbene il retaggio di tutte le traccie apparse alle sue spalle ne minano l’ascoltabilità, rendendone pacchiani e disarticolati molti passaggi, e lo stesso vale per l’introspettiva “Regicide“, in cui appaiono dei cori interessanti, ma circondati ancora una volta da battute irritanti, forzate, poco intuitive. I primi quaranta secondi della prima traccia bastano per riempire lo spettro di variazioni che gli Einherjer si siano mai concessi in cinque album, il resto è del tutto superfluo. La passione di Odin è sparita, l’ispirazione sublime di Far Far North è un’ombra lontana, la ricchezza dei testi di Dragons of the North un pallido ricordo.

Cosa rimane da dire, dunque. È triste e imbarazzante recensire un album del genere, e le parole falliscono dove la testa vorrebbe parlare. La cronaca è un dovere, e questo album è un fatto di cronaca. Mi ritengo un fan di vecchia data degli Einherjer, che come band mi ha dato tantissimo negli anni. Ho goduto a lungo dei loro lavori, mi sono appassionato alle loro figure e li ho sempre stimati, rispettati e invidiati per la posizione storica che hanno ricoperto. Il colpo che hanno inferto con quest’album è stato grave, il vuoto creato incolmabile. Negli anni mi sono confrontato con una grande varietà gente a riguardo, mentre continuavo ad ascoltare questo Norwegian Native Art mese dopo mese, fin dal giorno della sua comparsa sul mercato, in un misto di incredulità e disappunto. Ho sentito parole durissime provenire da ogni dove, addirittura è stata accusata direttamente la band da alcuni intervistatori e molti ascoltatori da tutto il mondo. Che si fossero accorti di aver confezionato un prodotto che, per quanto sincero – è risultato difettoso in più di un punto, ne hanno dato prova durante la promozione di Blot, in cui giurarono che sarebbero ritornati i Re del metal nordico in 60 minuti di cavalcata Viking tra le più ispirate della storia. Il risultato, purtroppo, è apparso di fronte agli occhi di tutti. Solo tre anni più tardi infatti l’ispirazione li avrebbe abbandonati definitivamente, e tra colpi di tosse imbarazzati e sopracciglia inarcate, la band si sarebbe sciolta definitivamente. La pluralità totale dell’informazione, comunque, vuole che a taluni quest’album sia piaciuto, e una rivista al tempo lo considerò addirittura l’album migliore della band. Dove terminino i giudizi manipolati e dove inizi la vera passione non è possibile saperlo, ma in una sola parola questo album è poco più che Inascoltabile. I fans che, famelici, sborsarono le 34.000 lire del tempo ancora ne portano i segni. Chi l’ha acquistato per curiosità probabilmente potrà ritrovarlo negli scaffali solo con il tatto: basterà cercare il punto con più polvere.

TRACKLIST:

1. Wyrd Of The Dead
2. Doomfaring
3. Hugin’s Eyes
4. Burning Yggdrasil
5. Crimson Rain
6. Howl Ravens Come
7. Draconian Umpire
8. Regicide

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