Recensione: Oculus Mortis

Di Alessandro Rinaldi - 8 Maggio 2025 - 0:15
Oculus Mortis
Etichetta: Masked Dead Records
Genere: Black 
Anno: 2025
Nazione:
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70

La Sardegna è una terra meravigliosa il cui sole e la bellezza delle spiagge la illuminano di una luce splendente, tralasciando il lato più misterioso e nero, come ad esempio quello dei Mamuthones o la figura dell’accabbadora, per non parlare delle tombe dei giganti o delle domus de janas (invitiamo i nostri lettori ad approfondire gli argomenti, in cui troveranno dei piacevoli riferimenti alla tradizione pagana). E proprio dall’oscurità di questa isola selvaggia e autentica, emergono gli Unholy Impurtity, band formatasi nel 2014 e che ci presenta il loro secondo lavoro, Oculus Mortis, a distanza di sei anni dal loro primo disco, Bones Worship.

Oculus Mortis ha un’accattivante artwork, opera dell’artista indonesiano Oik Wasfuk, molto grezzo ma particolarmente efficace che rappresenta al meglio la proposta musicale degli Unholy Impurity, ovvero un black metal vecchio stile. Assestati spesso su tempi medi e lenti, i ragazzi sardi riescono a tessere una tela molto convincente in grado di imprigionare l’ascoltatore e, quando meno te l’aspetti, compare l’aracnide pronto a correre sulla stessa, per divorarti.  L’ascolto delle nove canzoni che compongono l’album, per una durata complessiva di quasi 45 minuti, è agevolato da una omogeneità compositiva e di sound: particolarmente azzeccata, anche una produzione low-fi, che accentua il tocco old school di Oculus Mortis, garantendo una certa autenticità.

Into The Abyss è un succulento antipasto, in cui spicca la voce gracchiante di Erkitu, il tempo è quasi trascinato, per poi esplodere nella sua furia primordiale. Una rullata di batteria e un giro di basso – rigorosamente distorto – aprono Black Magic, un brano forte, semplice, in grado di colpire già dal primo ascolto. Ancient Stones Of Death ha una struttura più thrash, e si ritorna sui tempi più lenti, che premiano le atmosfere sulfuree e la melodia, pronte a sfociare nella loro rabbia.  The Oldest One ha un ottimo groove su cui si evolve il brano, mentre The Healer ha sonorità più ambientali, con un inquietante sospiro che ricorda la Mater Suspiriorum di Dario Argento e segna l’inizio di un ideale seconda parte del disco, caratterizzata dall’utilizzo della lingua sarda. Sos Rajos, dà un tocco folk con un growl del tutto particolare, più gutturale, che ricorda il cantato dei tenores sardi. Treutos Corrudos e Sos Filos De Sa Morte viaggiano su binari molto veloci, più consoni al genere, con blast beat e tremolo. Chiude la funerea Requiem è il passaggio conclusivo, cupo, e oscuro, lento: un saggio delle capacità compositive della band, degna chiusura di un buon disco.

Gli Unholy Impurity riescono a creare un’atmosfera tetra e diabolicamente opprimente, fortemente influenzata dalla vecchia e cara scuola norvegese degli anni ’90, con punte di estrema e incisiva violenza. Il grande merito degli Unholy Impurity è quello di mostrarci una Sardegna diversa, oscura, antica e pagana, lontana dal classico cliché del paradiso naturalistico e di meta ambita per le vacanze estive.

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70