Recensione: Perfect Symmetry

Di Massimo Ecchili - 20 Giugno 2010 - 0:00
Perfect Symmetry
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Anno: 1989
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82

Il termine inglese che meglio descrive la carriera dei Fates Warning è underrated. Sottovalutata, già. Il motivo per il quale la band di Hartford non abbia mai raccolto quanto avrebbe meritato rimane, ad oggi, oscuro.
Perfect Symmetry viene pubblicato in quel 1989 nel quale nasce, grazie al debutto When Dream And Day Unite, la leggenda Dream Theater; band con la quale Jim Matheos e soci divideranno palchi e diversi side project. Purtroppo con il gruppo di New York non riusciranno a condividere fama e successo, ma questa è un’altra storia.
Il full length rappresenta uno spartiacque nel percorso artistico del combo del Connecticut. Sebbene le svolte stilistiche non siano mai mancate nei primi quattro dischi, a partire da un heavy metal di stampo decisamente britannico dell’esordio e proseguendo con una continua levigatura del genere in seguito, tramite una ricerca di personalizzazione stilistica all’insegna della raffinatezza, con Perfect Symmetry arriva quella che si potrebbe definire la seconda vita dei Fates Warning. Le avvisaglie del cambio di rotta erano già presenti nel precedente No Exit, grazie all’ingresso nella line-up di Ray Alder, vero aspetto di discontinuità col passato, come rimpiazzo di John Arch, singer di indubbio talento ma legato a doppio filo ad un certo tipo di sonorità heavy; e grazie anche, se non soprattutto, alla lunga suite The Ivory Gates Of Dreams: poco meno di 22 minuti in chiusura di disco quasi ad annunciare quale direzione avrebbero preso i nostri in futuro.
Dal 1989 i Fates Warning entrano a far parte della famiglia del progressive metal, anche se sarebbe molto più corretto affermare che contribuiscono, proprio per mezzo di Perfect Symmetry, a gettare le basi delle fondamenta sulle quali tutto il genere si reggerà fino ai giorni nostri.
L’apporto in questa direzione del neo arrivato Mark Zonder, sostituto di Steve Zimmerman dietro le pelli, risulta assolutamente fondamentale per compiere la rivoluzione che, con ogni probabilità, Matheos aveva già da tempo in mente. Si aggiungano le fondamentali prestazioni, sebbene solamente in qualità di ospiti, di Kevin Moore, musicista dal gusto sopraffino, alle tastiere e di Faith Fraeoli al violino et voilà, la metamorfosi è completa.

Le danze si aprono con l’oscura Part Of The Machine, e la prima cosa che si nota è la assoluta integrazione tra DiBiase e Zonder, come se i due formassero da sempre una sezione ritmica coesa ed in perfetta coabitazione. Si respira un’atmosfera quasi claustrofobica, con un Alder a sgolarsi nuotando nei ritmi intricati ed inquieti dettati da batteria, basso e chitarre. Ray va su, sprigiona la sua estensione vocale e libera la sua potenza, ma mette in secondo piano l’interpretazione personale, curandola meno di quanto imparerà a fare in seguito, seguendo l’itinerario stilistico che altri hanno percorso o percorreranno allo stesso modo (Geoff Tate in primis).
Con la successiva Through Different Eyes si cambia registro: riff di facile presa, arpeggi durante le strofe e chorus assolutamente catchy. A non permettere al pezzo di risultare in un certo qual modo scontato ci pensa DiBiase, passando dalle cavalcate dei ritornelli al doppiaggio della voce nel ritornello, mentre l’assolo è equamente diviso tra Aresti e Matheos. Sembra la dimostrazione di come con un paio di idee geniali si possa trasformare qualcosa da normale in eccezionale. Non c’è da meravigliarsi se il brano diventerà un classico.
Static Acts fa compiere un passo indietro e il mood torna a farsi greve. Alder canta di appiattimento di opinioni e di espressività, ancora una volta lanciandosi sempre su alti registri nei quali cura più la potenza che l’interpretazione; scelta discutibile, nonostante la prova sia tanto impressionante quanto tecnicamente ottima.
In A World Apart spiccano il doppio assolo Matheos/Aresti e un drumming molto dinamico di Zonder, capace di soluzioni sempre nuove grazie ad uno stile fortemente personale ed un tocco riconoscibilissimo.
Acustica e violino introducono quel gioiello intitolato At Fate’s Hands, nel quale anche Alder finalmente abbonda di sentimento. Il brano si divide a metà: la prima parte è per l’appunto caratterizzata da un cantato estremamente sentito e da tutti gli strumenti ad accompagnare in modo discreto. “Helpless as we fall / beneath the crush of waters walls”; termina qui il lavoro di Ray nel pezzo, lasciando spazio ad una lunga parte strumentale nella quale si alternano i soli di Aresti prima e di Matheos poi; poi ancora Jim doppiato dal violino e Frank dalla tastiera. Tutto meraviglioso.
In The Arena Alder torna a raggiungere vette vocali di tutto rispetto, mentre le chitarre sostengono bene il pezzo, che ad ogni modo resta uno degli episodi meno incisivi del platter.
Chasing Time è una ballad nella quale torna a farsi sentire il violino di Fraeoli con un assolo molto ben inserito nel contesto. Anche qui come un po’ in tutto il disco l’atmosfera resta cupa, ed un senso d’inquietudine continua ad accompagnare l’ascolto.
Il finale è affidato ad un altro futuro classico della band, ovvero Nothing Left To Say, che si apre con una parte solistica nella quale ancora una volta si alternano in maniera egregia le due chitarre. A seguire abbiamo quella che potrebbe vivere di vita propria come una ballad, una parte che pesca ispirazione a piene mani dagli Iron Maiden, inframezzata dal solo di Aresti e chiusa da quello acustico di Matheos. C’è ancora giusto il tempo per riprendere il tema della mini-ballad e affidargli la conclusione, e qui si chiude il sipario.
Ciò che non convince del tutto, in mezzo a tanta qualità, è la produzione di Roger Probert, scaturita in un sound troppo asciutto e un tantino asettico, senza dimenticare il suono delle due chitarre decisamente poco corposo. Buono invece il lavoro su basso e batteria.

Disco oscuro, difficile da esplorare e far proprio, Perfect Symmetry, quarto capitolo della stupefacente parabola artistica dei Fates Warning, assomiglia ai testi che contiene, tutti votati a sentimenti quali disillusione, disincanto e frustrazione, e rappresentati da uno sguardo del tutto spoetizzato alla realtà interiore ed esteriore. E’ qui che prende forma, in modo ancora seminale, l’era prog metal che caratterizza la seconda vita discografica degli americani, raro esempio di band capace di mutare pelle ad ogni singola uscita.
Forse non si è mai compresa del tutto l’importanza storica di questo disco; forse è arrivato il momento di sottolinearla per rendere giustizia al genio compositivo di Aresti e, soprattutto, di Matheos.

Massimo Ecchili

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Tracklist:

01. Part of the Machine 06:16
02. Through Different Eyes 04:22
03. Static Acts 04:28
04. A World Apart 05:04
05. At Fate’s Hands 07:00
06. The Arena 03:18
07. Chasing Time 03:39
08. Nothing Left to Say 07:59

Line-up:

Ray Alder: lead and backing vocals
Jim Matheos: guitars
Frank Aresti: guitars and backing vocals
Joe DiBiase: bass
Mark Zonder: acoustic and electronic drums

Special guests

Kevin Moore: keyboards
Faith Fraeoli: violins on “At Fate’s Hands” and “Chasing Time”
 

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