Recensione: Phantom Singularity

Di Lorenzo Maresca - 6 Giugno 2018 - 10:00
Phantom Singularity
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2018
Nazione:
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75

Vincenzo Avallone appartiene a quella categoria di musicisti che, vuoi per scelta, vuoi perché le circostanze a volte lo impongono, decidono di lavorare quanto più possibile in autonomia, pubblicando album in cui rivestono tutti, o quasi, i ruoli principali: non solo quindi quello di compositore, ma anche quelli dei diversi musicisti, curando spesso le parti di strumenti diversi, che siano reali o campionati. Come ci si può immaginare, in questi casi si ha a che fare il più delle volte con album autoprodotti, e qui non si fa eccezione. A ben vedere oggi il termine “autoprodotto” può comprendere lavori molto diversi, da quelli dalla qualità poco superiore al demo fino ad arrivare a dischi altamente professionali, ma per fortuna possiamo anticipare che, in questo caso, abbiamo difronte un musicista che anche per quanto riguarda la produzione riesce a cavarsela più che bene. 
Tre anni fa il chitarrista salernitano presentava Escape Velocity, un primo album solista che mostrava già le caratteristiche di cui sopra. Il genere era facilmente identificabile in quel ramo del progressive metal legato al tematiche Sci-fi, una musica fatta di dense atmosfere spaziali nelle quali i pesanti riff di chitarra si adagiano spesso sui tappeti sonori creati da un generoso uso di riverbero e delay.

Ora l’avventura musicale di Vincenzo riparte dal punto in cui ci eravamo fermati la prima volta. Nel complesso la formula sembra essere rimasta invariata, ma notiamo comunque alcune differenze nel nuovo lavoro rispetto al precedente. Uno degli elementi più interessanti di Escape Velocity era la presenza di diverse collaborazioni che il chitarrista nostrano aveva iniziato con musicisti stranieri per completare il proprio album. Con questa nuova uscita alcuni ospiti sono ancora presenti, anche se in misura diversa. Drasticamente ridotto è il ruolo di Ruan Elias, il cantante brasiliano che aveva prestato la sua voce su Escape Velocity, che questa volta ascoltiamo solo sulla titletrack, unica traccia cantata dell’intero disco. Elias era senza dubbio uno dei punti di forza del primo album ed è un peccato che la sua presenza sia stata ridimensionata ma, tolto questo punto, l’album si difende bene sotto ogni aspetto. 
Se il genere e l’immaginario sonoro di Vincenzo Avallone sono rimasti invariati, le composizioni si sono fatte più ricche e articolate. I riff della sua sette corde sono ancora la spina dorsale di molti brani, ma allo stesso tempo è aumentato l’intervento delle tastiere, che ascoltiamo districarsi in arpeggi  o assoli di moog e sintetizzatori o aprirsi in epici arrangiamenti orchestrali. Proprio quest’ultima componente gioca un ruolo di primo piano all’interno dell’album, e lo possiamo notare in un brano come “Operation Black Scythe”: qui la sezione ritmica tipica del metal è assente ma, al suo posto, compaiono archi e cori grazie ai quali prende forma una musica che potrebbe far parte senza problemi della colonna sonora di un film di fantascienza. Con questo secondo album sono proprio le influenze cinematografiche a farsi strada, contribuendo a dipingere con ancor più efficacia quegli scenari cosmici che Vincenzo Avallone cercava già nel suo primo lavoro. Ad andare in questa direzione sono anche i monologhi, le letture e quelle che sembrano essere voci provenienti da film, presenti in più di un pezzo. Troviamo ancora questo genere di influenze su “Trascendence”, un ottimo pezzo che parte con una ritmica serrata per poi calmarsi nella parte centrale, dove ritornano orchestrazioni e cori dai toni cupi, e infine esplodere nell’ultima parte grazie a un assolo davvero notevole. Nel susseguirsi delle tracce fanno capolino qua e là anche alcuni inserti di elettronica, un po’ più presenti rispetto al primo album ma mai troppo invasivi: li possiamo ascoltare nella già citata “Operation Black Scythe”, dove una batteria elettronica fa da sfondo agli strumenti orchestrali, o nelle introduzioni di alcuni brani come “Solaris” o la stessa title track, nella quale texture di sintetizzatori e drum machine si intrecciano con strumenti ad arco.

Ancora una volta Vincenzo Avallone è riuscito a presentare un album valido, avendo un’idea molto precisa delle atmosfere che vuole esplorare, e ricreandole con risultati convincenti. Per chi scrive gli esiti più felici arrivano dalla collaborazione tra il chitarrista nostrano e il già citato Ruan Elias: i brani strumentali sono tutti meritevoli, ma sembra che le composizioni di Vincenzo arrivino a un altro livello quando si inserisce la voce di un buon cantante come Elias che, anche nell’unico pezzo in cui è presente questa volta, non manca di trovare linee vocali sempre efficaci. La nostra speranza è quindi quella di veder continuare questa collaborazione anche nei prossimi lavori. D’altra parte, come già detto, i brani di Vincenzo sembrano crescere sotto l’aspetto del songwriting, il che ci fa considerare il nuovo Phantom Singularity da un lato come una conferma delle qualità emerse nel precedente disco, dall’altro come un secondo passo in un percorso che, pensiamo, possa portare altro materiale interessante in futuro.

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