Recensione: Polydirectional Lines

Di Gianluca Fontanesi - 4 Dicembre 2014 - 18:00
Polydirectional Lines
Band: Zmerna
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2014
Nazione:
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62

Sotto il monicker Zmerna si cela il greco Manthos Stergiou (Tardive Dyskinesia, Lunatic Medlar) che, dopo il discreto successo di un primo demo, debutta ufficialmente in sede di full length con questo progetto; parliamo quindi di un lavoro solista totalmente strumentale e votato a un prog di matrice moderna.

Le correnti a di riferimento viaggiano verso Animals As Leaders, Tesseract, Periphery e, ovviamente e soprattutto, Meshuggah. Quando si parla del combo svedese come influenza di base si sa già nel 99% dei casi dove si andrà a parare e che musica si sta per ascoltare: il caro e buon vecchio djent! Poliritmie, chitarroni a 8 corde, focalizzazione sui mid tempo a livello ritmico e parti solistiche qui non dissonanti ma oniriche. E non c’è davvero altro da aggiungere.
E’ un genere ermetico, saturato in un batter di ciglia e che quindi poco si presta a variazioni sostanziose sul tema; qui non si fa eccezione ed il risultato non è dei migliori. Il disco in realtà non ha niente che non va, anzi, è suonato piuttosto bene, prodotto benissimo e a tratti sfoggia momenti di buon gusto, ma non offre davvero niente in grado di spiccare e distinguersi dalla massa abnorme di cloni che esistono oggi nel panorama musicale globale.
“Polydirectional Lines” ha una longevità molto bassa e, come aggravante, ha il fatto di essere strumentale: le tracce risultano molto derivative e offrono soluzioni che sanno di già sentito lontano un chilometro. Una voce personale e varia avrebbe sicuramente giovato al tutto, che finisce per essere tanto piacevole quanto incolore e innocuo.

“Adrenaline”, “Crystalline”, “Bloodline” e via dicendo scorrono dalle vostre casse senza lasciare nessun tipo di segno nel caso stiate impegnando il tutto come sottofondo ad altre attività; in caso contrario invece, se vi fermate e vi focalizzate solo sull’ascolto, “Polydirectional Lines” viene a noia dopo pochissimi ascolti e timidi accenni di scapocciamento. Non c’è praticamente niente qui che possa in qualche maniera dissuadere un potenziale fruitore dall’andarsi a sentire gli originali, liquidando il tutto con un click.

Possiamo quindi definire questo disco come un’opera acerba e non molto succosa: sembra quasi un tastare il territorio in maniera timida e tutt’altro che veemente. Prodotti di questo tipo, oggi, necessitano di qualità superiori per poter davvero lasciare il segno, anche se per pochissimo tempo.
Che il djent sia davvero un genere che tutti sono in grado di suonare ma nessuno ai livelli di Thordendal e soci?
Ai posteri l’ardua sentenza…

 

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