Recensione: Radio On!

Di Marco Tripodi - 6 Settembre 2021 - 11:00
Radio On!
Band: Lee Aaron
Etichetta: Metalville
Genere: Hard Rock 
Anno: 2021
Nazione:
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70

Per chi si è vissuto l’hard rock in divenire negli anni ’80, segnatamente quello a stelle e strisce, il nome di Lee Aaron (in realtà canadese), non è cosa nuova. All’epoca le rocker in gonnella lasciavano il segno, tutte bellissime, truccatissime, aggressive e spesso (per fortuna) anche assai convincenti da un punto di vista musicale. Lee era sicuramente tra quelle, cinque album tra l’82 e l’85 di pregevolissima fattura, tutti meritevoli, e con delle copertine indimenticabili perché – sarà poco politicamente corretto dirlo – Lee Aaron oltre che una voce era anche un corpo, e che corpo (….”bodyrock”). Senza contare le vendite platinate e i vari “award” conquistati. Gli anni ’90 sono un po’ di appannamento; come per il 99% della vecchia guardia cotonata glam, hair e hard rock, quel decennio è uno sconquasso, qualche carriera finisce, qualche altra si snatura, chi può vivacchia. La Aaron si sposta su lidi più pop e rassicuranti. Tra greatest hits, live in dvd e video collection dobbiamo aspettare il 2016 per un ritorno ortodosso al rock. Da quel “Fire And Gasoline” ad oggi Karen Lynn Greening (verno nome della Aaron) sforna tre full length, dimostrando di non aver affatto perso smalto, nonostante la tanta acqua passata nel frattempo sotto i trend ed i mercati discografici. Lee Aaron c’è, è viva e vegeta, e pare anzi aver ritrovato una notevole verve rockettara. Per fortuna molte donne muscolari (musicalmente parlando) continuano a farsi sentire ostentando un’ottima forma, penso a Suzi Quatro, Cherry Currie, Robin Beck, tutte Signore del rock con delle ugole potenti e piene di feeling, ed un songwriting che fa ancora centro. Pure la Aaron dunque entra a far parte del gruppo e con il nuovo “Radio On!” piazza un’altra zampata vincente.

Il titolo dell’album non dovrebbe lasciar dubbi sul fatto che le songs intendano essere catchy e radiofoniche, anche se non per questo troppo facilotte o dalle gambe fragili. In effetti Lee Aaron e la sua band assemblano 12 tracce dirette e lineari ma quasi sempre efficaci. A tratti molto, in due o tre casi forse non troppo. La prima metà dell’album è impeccabile, a partire dalla opener “Vampin’” fino a “Soho Crawl” è una corsa all’insegna dell’entusiasmo e del divertimento. Un sestetto di brani maledettamente trascinanti, brillanti, scoppiettanti. Tutto molto facile e immediato, tempo in quattro quarti, riff portante che ti squilla in testa e la voce ruvida e sensuale della Aaron a condurti per mano tra paesaggi urbani e skyline tipicamente nord americani. “Soho Crawl” in particolare è forse anche l’apice di questa discesa traboccante adrenalina. “Devils Gold” arriva ad interrompere un po’ il ritmo, trattandosi di una canzone che fa leva sull’intensità ma abbassando i giri del motore. Non un brutto pezzo, tuttavia il cambio di umore si avverte e sul finale qualche lungaggine di troppo concede per la prima volta il tempo di fermarsi a respirare e riflettere. Subito dopo troviamo in scaletta la canzone – a mio parere – meno interessante di tutte, “Russian Doll“, abbastanza di maniera ma priva di reale mordente. Chiaro che l’accoppiata segni il passo rispetto ai dei brani precedenti. Si riparte con “Great Big Love“, il cui tratto più interessante è quel riff in levare, dal piglio interrogativo, che indubbiamente regala puntiglio e sapidità al pezzo. “Waysted” si annuncia come una sorta di ballad, di preghiera acustica, ma a metà si accendono gli amplificatori e la corrente elettrica sveglia tutto il vicinato. Siamo di nuovo in pista. “Had Me At Hello” sculetta che è un piacere e figuriamoci se in un contesto simile la Aaron si fa pregare. La chiusura del platter è affidata ad un momento più intimista (“Twenty One“). Nel complesso dunque un album che ha molte più luci che ombre, che graffia a suon di rock ‘n’ roll classico, dal sapore estremamente live, e che concede quasi un’ora di gratificazione all’insegna della naturalezza, della spigliatezza e della freschezza. Giunta alla soglia dei 60 anni la Aaron non sa cosa sia la pensione e continua ad aggiungere mattoncini alla sua discografia oramai quasi quarantennale. Ad averne di “vecchie zie” come lei che ci allietano la giornata.

Marco Tripodi

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