Recensione: Repose

Di Emanuele Calderone - 5 Dicembre 2011 - 0:00
Repose
Band: Omit
Etichetta:
Genere:
Anno: 2011
Nazione:
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71

Il doom metal quest’anno ha assistito all’uscita di dischi di primissimo piano. Sul versante più estremo, quello comunemente conosciuto come funeral doom, sono tornati a pestar forte gli inglesi Esoteric con il fenomenale “Paragon of Dissonance”, lodato un po’ su tutto il web;  con “Chapter 3: Parasomnia” anche gli ormai sciolti Colosseum hanno dato un contributo di grande rilievo alla scena. In ambito più classico invece, questo 2011 ha visto l’attesissimo ritorno di realtà celebri, quali i Pentagram che con Last Rites” sono risorti dopo 7 anni di silenzio. Non sono stati a guardare neanche i Cathedral, pronti a rilasciare, il 2 dicembre prossimo, l’EP “A New Ice Age”.

Tra i nomi meno altisonanti e conosciuti abbiamo invece assistito all’esordio dei norvegesi Omit, band nata nel 2009 ad Oslo, che con “Repose” compie il primo passo nel panorama doom metal. Lontani anni luce dalla pesantezza del funeral, così come dalla genuina semplicità del doom più classico, i quattro ragazzi decidono di dar vita a una musica particolarmente raffinata e sofferta, carica di pathos, che attinge a piene mani dalla tradizione gothic/doom del nord Europa. Per voler riassumere al massimo, “Repose” è un dischetto che da un lato fa sua la lezione dei grandi nomi della scena norvegese quali i primi Theatre of Tragedy e Tristania e dall’altro subisce l’influenza del death/doom più melodico. Dai primi riprende non solo la costante ricerca di melodie malinconiche e di atmosfere dimesse, ma anche l’utilizzo di una voce femminile di stampo lirico; l’operato del mezzo soprano Cecile Langlie ricorda, per quel che concerne le linee melodiche facilmente fruibili quello dell’avvenente collega Vibeke Stene. Per quanto riguarda invece l’impostazione vocale, mi è ritornata alla mente l’inglese Sarah Jezebel Deva, cantante in forza ai vampiri inglesi Cradle of Filth e agli Angtoria. La ragazza sfodera una prestazione decisamente convincente, dimostrandosi capace di passare con grande disinvoltura da tonalità medio/basse ad altre più alte, curando sempre anche l’aspetto interpretativo.
Si parlava in precedenza anche di death/doom, dal quale vengono invece riprese la lentezza delle ritmiche assai diluite e, più in generale, l’approccio alla musica, che risulta a tratti ossessiva e soffocante. Ciò nonostante, gli Omit non rinunciano -per fortuna, dirà qualcuno- a conferire alle proprie composizioni un gusto romantico che rende l’ascolto dell’album decisamente meno ostico. Questa scelta si rivela vincente, anche perché vista l’elevata durata dell’opera(ben 80 minuti suddivisi in due cd), il rischio di risultare tediosi è sempre dietro l’angolo.

Dando un primo rapido ascolto a “Repose” si notano subito le buone capacità esecutive dei ragazzi. Pur senza perdersi in arzigogoli inutili, i quattro sembrano decisamente abili nel maneggiare gli strumenti. Il lavoro viene svolto con grande perizia e consapevolezza dei propri mezzi e risulta scevro da imperfezioni. Ma non è solo la tecnica che mi ha lasciato piacevolmente stupito: anche il songwriting, infatti, si attesta su livelli discreti, pur essendo abbastanza derivativo. Ciò significa che questo doppio cd, pur non rivoluzionando la scena, riuscirà a fare breccia nei cuori di tutti i doomster.
Passando alle canzoni, salta subito all’orecchio una certa differenza tra i due dischi: il primo, contenente tre brani, suona assai più melenso ed elegante rispetto al secondo, che appare invece molto più ossessivo e tragico.
Non pensate che decidere quale sia il migliore tra i due sia stato compito da poco! Nella prima parte colpiscono l’introduttiva “Scars” e la conclusiva “Dissolve”, ammalianti grazie alle loro linee melodiche suadenti e calde. D’altra parte, nella seconda metà dell’opera ritroviamo “Constriction” che, a parere di chi scrive, raggiunge i picchi emotivi più elevati del lotto, grazie soprattutto alla straordinaria interpretazione della Langlie, brava come non mai a dare carattere al pezzo.
Allo stesso modo non mancano episodi che ci hanno lasciato qualche perplessità. Ci riferiamo nello specifico a “Fatigue”, un po’ troppo di modo e priva di spunti memorabili, o ancora a “Insolence” prolissa e stancante oltremodo e, per di più, pure poco coesa. I 26 minuti di quest’ultima risultano davvero pesanti a causa di un effetto “collage” e, statene certi, rischierete di interromperla prima della fine.

Da notare come i Nostri, al fine di conferire un aspetto il più professionale possibile a questo “Repose”, abbiano curato con attenzione certosina anche il lato estetico del prodotto. La grafica del booklet appare ricercata sia nei disegni che nei colori, che spaziano dal bianco più candido al grigio, sino al nero.

Nulla da obiettare per quanto concerne la registrazione ben curata ma lontana dall’essere patinata. I suoni degli strumenti sono corposi e pieni e riescono a rendere l’ascolto del lavoro ancor più piacevole.

Arrivati a questo punto possiamo dunque tirare le somme. “Repose” è un disco gradevole che, tra alti e bassi, riesce quasi sempre a colpire l’attenzione dell’ascoltatore. Certo i difetti -tra cui una certa prolissità generale- ci sono, ma non minano eccessivamente la gradevolezza d’ascolto. Aggiustando un po’ il tiro e raffinando ancor di più il songwriting, siamo sicuri che i ragazzi possano arrivare molto lontano e guadagnarsi un posto tra “quelli che contano”.

Emanuele Calderone

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Tracklist:
01- Scars
02- Fatigue
03- Dissolve
04- Constriction
05- Insolence

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