Recensione: Ripped Up By The Roots

Di Stefano Usardi - 24 Settembre 2020 - 9:30
Ripped Up By The Roots
Etichetta: WormHoleDeath
Genere: Thrash 
Anno: 2020
Nazione:
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75

Nati come tribute band per omaggiare i loro gruppi speed e thrash preferiti del decennio d’oro del metallo, gli Under the Oak (che ci tengono a precisare di essere ANCORA una tribute band) si affacciano sul mercato discografico col loro esordio, “Ripped Up By The Roots” in cui, guarda un po’, si divertono ad omaggiare i loro gruppi speed e thrash preferiti del decennio d’oro del metallo. E come lo fanno? Nell’unico modo possibile, incidendo dieci tracce di metallo agguerrito e iroso e piazzando un paio di cover ad hoc sul finale, per un totale di un’oretta di musica. La proposta dei nostri quattro baldanzosi norvegesi si sviluppa in un thrash metal secco, diretto, veemente, in cui la lezione dei nomi principali del genere e del periodo in questione (gli anni ’80, per chi non l’avesse capito) viene assorbita con ferrea disciplina ma senza precludere una certa personalità. Che ai nostri piacciano gruppi come Exciter, Testament, Flotsam & Jetsam ed Exodus è evidente, dato che la loro musica trasuda elementi caratteristici dei sunnominati da ogni poro: chitarre aggressive e rombanti che sanno farsi anche minacciose e sospettose, una sezione ritmica quadrata e combattiva e una voce iraconda, sfacciata. Il metallo degli Under the Oak si declina attraverso canzoni di media lunghezza, caratterizzate da velocità buone ma non particolarmente sparate, il cui ritmo si mantiene sufficientemente incalzante da invogliare l’headbang ma senza scadere nel caos sonoro. Di tanto in tanto, un rallentamento qua e un’accelerazione là donano ulteriore dinamismo alle tracce che, comunque, si mantengono solide e compatte, concentrate e funzionali all’obiettivo che i nostri si pongono: farvi scapocciare dovunque vi troviate.

Si parte con “Tribulation”, traccia combattiva dominata da un’altalena di riff vorticosi e dalle urla di Jostein, la cui foga, vi dico già, costituirà il leitmotiv dell’album. La traccia si distende su ritmi mediamente galoppanti, sfruttando qualche cambio di velocità per enfatizzare questo o quel  passaggio e accelerando quando serve. Con la successiva “Chaos in the Pit” si procede più o meno sulle stesse coordinate, ma puntando su toni più minacciosi che sul dinamismo a tutti i costi, trasmettendo la giusta dose di aggressività grazie al lavoro “magmatico” di chitarre e basso. “Hymn for the Fallen” se la gioca con una serie di rallentamenti ed accelerazioni durante tutta la sua durata; gli svolazzi dal profumo Slayeriano aprono a una sezione strumentale intrigante, che cede nuovamente il passo alla foga vocale che ci traghetta alla successiva “The Fountain”. Qui si parte in quarta, col quartetto che macina rabbia e una certa carica battagliera quasi punk sporcata di tironfalismo nelle melodie. Dopo la partenza violenta, il pezzo si assesta su velocità di crociera non troppo spedite, confezionando una traccia semplice e diretta in cui si incastona un assolo dal tono quasi sognante. Anche “War of Attrition”, dalla partenza poderosa ed arrogante, riecheggia la tipica cattiveria Slayeriana nell’uso di melodie abrasive e cupe, salvo poi insinuare di tanto in tanto nella miscela una certa dose di malinconia. Un arpeggio carico di pathos apre “Total Human Destruction”, che in un attimo parte sparata, dispensando scudisciate a destra e a manca. L’arpeggio iniziale torna a farsi sentire di tanto in tanto, smorzando la carica del pezzo coi suoi toni elegiaci e donando una buona ambivalenza alla traccia. “Turned Into Leaves” punta invece sulla cafonaggine diretta, mettendo in mostra melodie maschie e muscolari infarcite da passaggi più dimessi, mentre “Wrath of Nature” rallenta un poco i giri del motore, giocando inizialmente con ritmi tribali; l’illusione dura una manciata di secondi, dato che poi i nostri tornano a distribuire riff incombenti mantenendo, però, una velocità abbastanza contenuta, nervosa, anche grazie ai numerosi rallentamenti in cui si screzia la traccia con toni di volta in volta cupi e spavaldi. “Butterflies & Unicorns” gioca più o meno sullo stesso terreno di gioco, distendendosi su velocità contenute e ritmi insistenti e infarcendo tutto con rapidi guizzi più variegati che le donano sfaccettature insospettate e, al tempo stesso, distraggono dalla sua staticità di fondo. Chiude il reparto delle tracce originali la lunga “Terror & Violence”, scandita da ritmi marziali sui quali i nostri, come già fatto in precedenza, ricamano brevi incursioni dai sapori e profumi diversi, donandole rotondità senza intaccarne l’aura di minaccia. Il rallentamento finale, poi, dona una maggiore solennità al pezzo, permettendo ai quattro vichinghi di prendere congedo dai fan con la giusta dose di pathos.

Ripped Up By The Roots” è un buon esordio, che mette le cose in chiaro su cosa i nostri baldi norreni sappiano fare: le canzoni sono dirette, asciutte e dotate della giusta veemenza, cariche quanto basta e sufficientemente strutturate. Nonostante i rimandi ai loro gruppi di riferimento siano abbastanza riconoscibili, i nostri ci mettono parecchio del loro, confezionando un album carico e abbondante che di sicuro resisterà parecchio nel vostro stereo. Niente male per una Tribute Band!

Capitolo cover: quella dei Candlemass (doverosa, con un monicker come il loro), a fronte di una resa strumentale abbastanza simile all’originale, non mi ha fatto impazzire. Probabilmente la colpa va ricercata nella voce di Jostein, che per quanto si sforzi non riesce a trasmettere la sofferenza che mi aspetto da chi si approccia a un pezzo come “Solitude”. Va meglio con “Pounding Metal”, maggiormente nelle corde dei nostri anche da un punto di vista “emotivo”, che viene riproposta con la giusta carica e sfacciataggine.

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