Recensione: Ritual

Di Daniele D'Adamo - 4 Luglio 2011 - 0:00
Ritual
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Anno: 2011
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82

Dopo due anni, i The Black Dahlia Murder riprendono il filo del discorso là dove l’avevano lasciato: da “Deflorate”, cioè, all’epoca quarto album in studio della band di Waterford.

Abbandonate ormai quasi del tutto le velleità melodiche degli esordi e, conseguentemente, quelle metalcore, la band Trevor Strnad si getta a capofitto in un vorticoso gorgo sonoro alimentato in primis da un devastante deathcore e poi, anche, da rilevanti – ma non decisive per fissare il genere – sfumature di gelido black metal.

Se evoluzione si voleva, quindi, evoluzione c’è stata. Un’evoluzione che presumibilmente scontenterà gli amanti delle sonorità accattivanti tuttavia, a parere di chi vi scrive, il gruppo ha raggiunto uno stato tecnico/artistico ideale per sparare senza indugio l’immane potenziale bellico a sua disposizione evitando di perdersi nella ricerca di ritornelli da mandare facilmente a memoria. L’ossatura attuale del sound dei The Black Dahlia Murder, difatti, è talmente robusta che è quasi ridicolo pensare a un target mainstream per una serie di canzoni l’una più violenta dell’altra. Con che, in sostanza, i cinque del Michigan pare davvero abbiano deciso cosa fare da grandi: death(-core) metal moderno, feroce e rabbioso; liberi da dover inserire nel loro sound fronzoli e ammennicoli melodici così da dedicarsi, soprattutto, a scatenare un tornado metallico dalla violenza sonora tale da radere al suolo tutti e tutto.

Del resto, non occorre molto per accorgersi che il suono di “Ritual” è semplicemente devastante. Bastano pochi secondi dell’opener “A Shrine To Madness”, retta da un riff portante da antologia e foriera dell’onda d’urto terremotante che incombe sull’ascoltatore. Il guitarwork di Ryan Knight e Brian Eschbach è semplicemente spaventoso, nella realizzazione del gigantesco muro di suono che esce dagli speakers dell’impianto Hi-Fi; con la conferma di Knight quale abile rifinitore con i suoi azzeccati soli, a volte melodici, a volte scarificatori. Strnad si mostra assai abile nell’interpretare due stili antitetici come il growling più profondo e lo screaming più scellerato. Chiudono il quadro di un suono davvero distruttivo Ryan “Bart” Williams e Shannon Lucas, meccanismi di un motore ritmico dalla potenza apparentemente senza fine, capace nello stesso tempo di arrampicarsi ovunque, anche sulle scale musicale più ardue. Se qualcuno, anche e soprattutto in passato, poteva pensare a un prodotto concepito a tavolino a uso e consumo degli adolescenti dalla facile impressionabilità – dato anche atto degli horrorifici e morbosi temi affrontati – dovrà assolutamente ricredersi: “Ritual” è un lavoro artisticamente maturo in ciascuna delle sue parti e, sinceramente, di difficile digestione per tutti a causa del suo inarrestabile impatto sonoro. Figurarsi per i novizi del metal estremo…

Anzi, fedelmente all’origine del nome, il tono del CD è costantemente cupo, tetro, oscuro. La forte visionarietà della musica immerge con forza in un Mondo ostile, angoscioso e ricco di pericoli; un Mondo costantemente segnato da efferatezze e da eventi traumatici, un Mondo dal cielo nero e dalla terra arsa, arida. Nell’attento sviluppo della composizione musicale in rapporto ai temi di base consiste, ed è qui che si trova la chiave di volta del disco, la vera evoluzione prima citata: da offerta potenzialmente potabile per tutti, a iniziativa sicuramente per pochi. Una scelta coraggiosa che onora Trevor Strnad e i suoi compagni.    

Se “A Shrine To Madness”, dopo un triste incipit agli archi, travolge inaspettatamente l’auditorio, “Moonlight Equilibrium” rappresenta, forse un avanzo delle produzioni antecedenti essendo l’unica song di “Ritual” connotata da una certa dose di melodiosità. Buona melodiosità che però non è certo quella giusta da far passare la song stessa nei supermercati come musica di sottofondo! L’immane mid-tempo in doppia cassa di “On Stirring Seas Of Salted Blood” riporta – segnata da un azzeccato umore malinconico – l’act americano sulle giuste coordinate musicali, cioè quelle del completo sconquasso sonoro.
“Conspiring With The Damned” non propone alcuna soluzione di continuità dal brano precedente per ciò che concerne l’ormai dichiarata opera di distruzione, seppur spezzata da break rallentati aventi la giusta, inquietante inclinazione: è uno sfascio completo e Knight è ancora e sempre sugli scudi con i suoi fulminei e ficcanti soli. Identico discorso per la terribile “The Window”, nel rispetto di una continuità stilistica che il complesso ha fatto suo con decisione, determinazione e personalità. Il black metal si mostra in tutta la sua maligna misantropia con “Carbonized In Cruciform” che, se non fosse per gli inserti in growling, avrebbe tutte le carte in regole per essere catalogata come una black metal song a tutti gli effetti. Impressionante per efficacia e sequenza di accordi, ancora, il main riff; come, ancora una volta, è memorabile il solo di Knight. “Den Of The Picquerist” serve sia per mostrare la bravura al basso da parte di Williams, sia per non dimenticare – in virtù degli effetti campionati – che alla base di tutto il progetto dei The Black Dahlia Murder c’è uno dei più efferati omicidi della Storia conosciuta dell’Uomo.
“Malenchanments Of The Necrosphere” fa sentire che il thrash non può esser tenuto fuori da “Ritual”, giacché la possente costruzione ritmica delle chitarre può essere ottenuta solo con la tipica tecnica del palm-muting; qui eseguito ai limiti del virtuosismo. Furibonde sfuriate di blast-beats fanno da apripista alla folle “The Grave Robber’s Work”, pazzo esempio di abilità tecnica nel sondare le più alte velocità dei BPM senza perdere un briciolo di potenza. Ancora una volta, a costo di essere noiosi, non si può soprassedere sul grande solo di Knight. “The Raven” fa un po’ da copia/incolla dell’episodio precedente, con un po’ di melodia in più; mentre “Great Burning Nullifier” arrotola imperterrita il suo asfissiante ritmo attorno al collo delle vittime che, sicuramente, mieterà (metaforicamente parlando) “Ritual”.
“Blood In The Ink” chiude l’opera in maniera egregia, con il suo intro horror. Poi, l’inferno sulla Terra si materializza con l’aiuto di campionamenti e dei violini che aumentano il potere visionario, già forte, insito nella musica dell’insieme a stelle e strisce.

Una volta accantonato il passato e i relativi pregiudizi sui The Black Dahlia Murder, senza indugio, fate vostro “Ritual”. Non rimarrete delusi. Oggigiorno, trovare una band in grado di spingere così forte sull’acceleratore senza perdere stabilità e precisione di guida è impresa assai ardua. Anzi, quasi impossibile.    

Daniele “dani66” D’Adamo

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Track-list:
1. A Shrine To Madness 4:40
2. Moonlight Equilibrium 3:28
3. On Stirring Seas Of Salted Blood 4:42
4. Conspiring With The Damned 3:44
5. The Window 3:39
6. Carbonized In Cruciform 4:46
7. Den Of The Picquerist 1:30
8. Malenchanments Of The Necrosphere 4:18
9. The Grave Robber’s Work 3:37
10. The Raven 2:58
11. Great Burning Nullifier 3:25
12. Blood In The Ink 4:40

All tracks 45 min. ca.

Line-up:
Trevor Strnad – Vocals
Ryan Knight – Lead Guitars
Brian Eschbach – Rhythm Guitars
Ryan “Bart” Williams – Bass
Shannon Lucas – Drums
 

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