Recensione: Ritual of Split Tongues

Di Daniele D'Adamo - 16 Novembre 2025 - 7:30

Da sempre impegnatissima nel campo del death metal, una volta tanto la label specializzata Transcending Obscurity Records cambia registro e propone un disco di sludge o, perlomeno principalmente, di sludge.

Lo fa con una band il cui solo nome fa già girar la testa, Drofnosura, autrice del secondo album in carriera, “Ritual of Split Tongues“. Band che ha una carriera, appunto, di quindici anni alle spalle. Non dei novellini, quindi. Anzi, i tre misteriosi membri sanno il fatto loro sia di in fatto di esperienza, sia di mera perizia tecnica, sia di abilità compositiva.

Il genere. Sludge, si ripete. Tuttavia contaminato da doom, black, e anche post-metal. Sebbene la definizione corretta per il combo canadese sia quella della foggia musicale predetta, le intersezioni con altre realtà, doom in primis, portano il combo stesso a elaborare uno stile sicuramente ricco di personalità, istintivo e pieno zeppo di sfumature colorate. Anche se di tonalità scure, tipiche della melma fangosa che si trova nelle paludi della Florida, giusto per tirar fuori un esempio dal cappello.

Tonalità che si riverberano nell’umore dell’LP, assai lontano da emozioni/sentimenti quali gioia, felicità, contentezza e via di seguito. Singulti che notoriamente durano poco lasciando spazio alla crudezza di una vita fitta di sofferenza e di dolore. Il terzetto di Toronto questo lo sa bene, e quindi rilascia una gran quantità di effluvi sonori che stordiscono, che agiscono a mò di sostanze psicotrope, atte ad allontanare la mente dalle misere questioni giornaliere.

Le song sono temporalmente lunghe (così come il full-length nel suo complesso, che supera i sessanta minuti), obbedendo alla tradizione dello sludge ma anche del doom. Accanto a queste lentissime litanie ove circola anche un po’ di melodia (“Kapala Kriya“), sono proposti episodi più movimentati come l’opener-track, “Selection of a Corpse“, nonché la title-track “Ritual of Split Tongues“, stravolti da tanto monumentali quanto lenti riffoni che impastano la bocca di mota. Sui quali si muovono le clean e harsh vocals di W.L.F. e D.A.S., abbarbicate a linee canore che, ma solo apparentemente, vanno per conto loro. Sì, perché approfondendo gli ascolti con specifico riferimento ai dettagli, emerge una connessione stretta fra il lavoro della chitarra e quello delle ugole dei suddetti signori.

Nondimeno si possono lasciare indietro le movimentazioni dei sintetizzatori, plasmate da tutti e tre i musicisti; elementi assolutamente indispensabili per avvolgere il sound emesso dall’altra strumentazione mediante un sudario la cui tinta ruota attorno al marrone. Il sound che ne esce, ovvero quello definitivo, è totalmente coinvolgente, assorbente, totalizzante. Una volta entrati nel mondo dei Nostri risulta difficile uscirne, ammaliati dalle dissonanze e dalle cacofonie allucinogene che s’intrufolano nei meandri cerebrali, per trasportare la mente in ambienti del tutto lisergici.

Culmine di tutto ciò è l’incredibile incedere di “ἐγείρω“, canzone in cui si itera il medesimo pattern di chitarra ed entra sino al midollo il rombo che balugina dai synth, ottenendo in tal modo agghiaccianti miraggi di spoglie, profonde, incommensurabili vallate ubicate su qualche pianeta sparso per il Cosmo. Una sensazione davvero intensa, che assorbe in toto pensieri, visioni, immagini per un’immersione completa nel suono che caratterizza “Ritual of Split Tongues“.

Un’opera, quindi, che non può lasciare indifferenti ma che necessita di più letture per svelarne l’anima narcotica, se così si può dire. Opera che, nondimeno, può non piacere a coloro che siano avulsi allo sludge e alle sue implicazioni artistiche. Bravi i Drofnosura, in ogni caso, a raggiungere livelli di percettività viscerale al di fuori del comune.

Daniele “dani66” D’Adamo

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