Recensione: Rivers Of Nihil

Di Paolo Fagioli D'Antona - 2 Giugno 2025 - 12:00

Un self-titled che ha davvero il sapore di un nuovo inizio per gli statunitensi Rivers Of Nihil, che giunti al loro quinto full-lenght si trovano a dover consolidare il successo di critica e pubblico di due album acclamati come i precedenti Where Owls Know My Name del 2018 e The Work del 2021. La progressive death metal band lo fa con una formazione stravolta dopo l’abbandono dello storico vocalist Jake Dieffenbach e del chitarrista Jon Topore e con l’arrivo di un nuovo innesto, quello di Andy Thomas, che a tutti gli effetti trasforma i Rivers Of Nihil in una formazione a quattro. Le parti in growl sono quindi ora affidate al bassista Adam Biggs (scrittore anche dei testi), mentre è stato proprio il nuovo entrato Andy Thomas ad affidarsi alle parti in pulito, molto presenti e di spicco in questo album e che senz’altro donano un “twist” interessante al sound della band. Ma è anche lo stesso batterista della band Jared Klein ad offrire un ennesimo contributo vocale, per un trio di voci che ben si compensano e che offrono senz’altro una delle novità più interessanti del variopinto mondo sonoro dei Rivers Of Nihil.

Tuttavia lo shift non è avvenuto solo a livello di formazione ma anche dal punto di vista concettuale; se i primi quattro album erano tematicamente legati ognuno ad una diversa stagione dell’anno, ecco che al termine di questo ciclo, la band ha avuto carta bianca per poter esplorare nuovi orizzonti anche dal punto di vista lirico, con dei testi che oltre ad essere come al solito molto introspettivi, rappresentano una facciata dell’America odierna, tra le sue mille contraddizioni e controversie, temi questi esplorati in brani come American Death o Criminals. A livello sonoro come ammesso dalla band stessa, c’era il volere di concepire un disco meno sofisticato e cervellotico del precedente The Work, un disco più diretto, guitar-oriented e che prendeva come riferimento il tanto amato/odiato Black Album dei Metallica. Ed è proprio stata la struttura più semplice e diretta di questo storico e rivoluzionario platter del 1991 che ha ispirato la band a concepire, (dopo il suo ..And Justice For All , The Work appunto), un disco in cui le melodie fossero grandiose e spiccassero, per un sound meno complicato e denso e che arrivasse al “nocciolo” in maniera più rapida e con un tempo di durata più ristretto (non ci sono infatti in questo album pezzi particolarmente lunghi per un disco di cinquanta minuti, contro i sessantacinque del precedente).

Questa premessa non vuol  certamente dire che i Rivers Of Nihil abbiano partorito un disco povero di sfumature raffinate e privo di una interessante ricerca sonora, tutt’altro! La band riesce infatti ad essere diretta ma allo stesso tempo elaborata con strumenti “poco convenzionali” come il Banjo o il Sax (quest’ultimo  che ormai è diventato un must per il gruppo sin dai tempi del loro terzo album), qualche contaminazione di elettronica minimale (si pensa all’inizio di Water & Time) e qualche altra piccola escursione in territori vicini alla synthwave (come per i primi secondi di The Logical End). Ma il fulcro ed il tratto distintivo di questa band rimangono le chitarre che macinano riff dal sound granitico, meccanico ma da un retrogusto a tratti un pochino “sludgy” e carico di groove, per un’impronta chitarristica ed un suono piuttosto riconoscibile e ben identificabile al four-piece statunitense e che brilla di luce propria accanto ad una fase ritmica devastante ma anche sofisticata.

Il disco si apre con The Sub-Orbital Blues, un pezzo che è stato già pubblicato come singolo a se stante diverso tempo fa (pensate che abbiamo sentito questo brano live già a fine 2023 quando i Rivers Of Nihil aprirono per i Lorna Shore all’Alcatraz di Milano). In quel periodo la band pubblicò un altro brano come Hellbirds che però in questo caso  non è stato incluso nella scaletta del disco al contrario del pezzo appena menzionato.

The Sub-Orbital Blues è un opener che non ti aspetti, dove è evidente il cambiamento adoperato a livello vocale nella band con tanto di vocalizzi iniziali, per ricreare un sound evocativo e onirico, prima che il pezzo si spinga in un mid tempo coadiuvato dalla voce in pulito ed in scream, assieme ad un minimale ma efficace utilizzo del sax.

Dustman è il primo pezzo che spinge decisamente sul pedale del gas, riportandoci ai fasti sonori di Where Owls Know My Name con quel tipico trademark sound dei Rivers Of Nihil, arricchito da quelle improvvise accelerazioni di doppio pedale che tanto sono care alla band. C’è anche spazio per un mini-breakdown verso la fine del pezzo, prima che la voce in pulito svetti nuovamente sopra al “wall of sound” del gruppo. Molto interessante inoltre come il brano sfoci direttamente in Criminals, per un disco che certamente non ha il flow di un concept album (come è giusto che sia dato che le canzoni trattano di temi molto diversi), ma che in questo caso nella combo Dustman- Criminals ci immergono nuovamente in quell’aurea.

L’inizio di Criminals è enigmatico e spettrale, dotato di una ritmica interessante, un riff di chitarra semplice ma efficace, un banjo in sottofondo e una linea di synth che sembra quasi replicare il mormorio di un freddo vento in una serata di Halloween, o ancora, una sorta di richiamo degli spiriti all’interno di una casa infestata. Il fascino della musica dei Rivers Of Nilhil è proprio questo; il saper ricreare dei momenti pregni di atmosfera  all’interno di un sound tecnico, chitarristico e muscolare e mai come in questo album i ragazzi sembrano aver curato ogni minimo dettaglio del platter per portare alla luce questi aspetti. Criminals è sicuramente uno dei pezzi da novanta del disco, anche qui con un’apertura melodica con tanto di voce in clean che per quanto ci riguarda risulta essere l’elemento che alla band mancava, almeno in questa misura e bisogna fare certamente un plauso alla nuova recluta Andy per aver dato vita in un modo così convincente a questo lato della musica della band. Molto interessante anche il break all’interno del suddetto pezzo che assieme a delle voci sussurrate e minacciose, va a ripescare quegli stessi momenti musicali che aprivano la composizione. Di spicco anche l’assolo di chitarra che va a chiudere il brano (ce ne saranno diversi nel platter).

Despair Church  risulta essere un altro pezzo di assoluto rilievo nell’economia del disco, con i suoi riff nervosi, un fantastico ed elaborato lavoro dietro le pelli fatto di fill ricercati, ma allo stesso tempo con altre sezioni batteristiche dove la furia è assolutamente incontrastata – una furia ed un sound ancor più valorizzato da una produzione e un mix stellare che mette in risalto ogni singolo strumento in maniera perfetta, senza dimenticarsi del basso che in diverse sezioni di questo lavoro si ritaglia un ruolo rilevante e di primo piano- Tornando a Despair Church, i suoi stacchi evocativi e delicati sono il fiore all’occhiello della canzone, così come quell’assolo di sax (accompagnato dal pianoforte) posto in chiusura del brano, proprio quando sembrava che quest’ultimo fosse destinato alla sua naturale conclusione. Despair Church è il pezzo più lungo del platter con i suoi sei minuti e mezzo ed è anche uno dei più ricchi ed elaborati, unendo una teatralità macabra un pochino in stile Meliora dei Ghost con tanta ricerca sonora, unita ad un wall of sound chitarristico impressionante (talvolta  alcuni riff sfiorano addirittura il djent).

Il pezzo sfocia nel beat elettronico di Water & Time, l’ennesimo gran pezzo del disco, stavolta arricchito da un vibe spirituale ed onirico, che ci porta in uno stato meditativo accompagnato da alcune bellissime linee vocali in pulito di Andy, mentre il brano esplode in uno dei suoi chorus più sentiti. Anche qui, un breve inserto di sax ci introduce ad una delle sezioni più brutali del pezzo, con uno start & stop vocale furioso e brevissimo, prima che il pezzo esploda in un bell’assolo di chitarra.

Strumming acustico in sottofondo per un altro inizio carico di atmosfere sulfuree e meditative, quello di House Of Light, per un titolo che descrive proprio quella sensazione di essere avvolto in un’aurea di luce in una dimensione quasi spirituale. Anche qui l’uso del sax non stanca e anzi, lo troviamo appropriato alle atmosfere del pezzo che poi si carica sfociando in un brano brutale, ma allo stesso tempo molto assimilabile grazie al mastodontico chorus in pulito reso ancor più d’impatto da una mini sfuriata in blast-beat.

Evidence ci travolge con la sua brutalità devastante un po’ come aveva fatto il pezzo MORE? dal precedente platter The Work, con delle scariche in blast-beat improvvise che faranno tremare le fondamenta dei nostri padiglioni uditivi. Anche qui tuttavia non mancano le aperture melodiche in clean, ed una nota di merito va per il break in mezzo alla canzone dominato da una ritmica interessante e da cui sfocia l’ennesimo assolo di gusto.

American Death è stato uno dei singoli presentati per promuovere il disco e pur non portando nulla di nuovo al platter in questione, ci offre un altro pezzo godibile con quello che probabilmente è il chorus più riconoscibile e meglio riuscito dell’intero album e uno dei testi più diretti dell’intero disco con quel suo “fuuuuuuck!!!!” scandito in maniera rabbiosa e furiosa dal bassista/vocalist Biggs.

I passaggi synthwave di The Logical End ci introducono ad un altro pezzo sublime, dove la dualità tra voce pulita e growl cavernoso la fanno da padrona in maniera veramente efficace. Il velluto di tastiera che sorregge parte del pezzo, l’assolo di sax, le sfuriate ritmiche, rendono questa composizione una delle cose più elaborate, ricercate ed entusiasmanti del lavoro. La fine più logica al disco? (parafrasando il titolo) Sì, crediamo che questo pezzo sarebbe stato perfetto per chiudere l’album  in gran stile ma la band ha voluto invece regalarci un altro tassello in chiusura che prende il nome proprio della band stessa.

Rivers Of Nihil è un breve pezzo che può essere visto come una prosecuzione di The Logical End, per una composizione senza una precisa struttura che viene aperta da delle linee di chitarra calde e “blueseggianti”, per un brano che cresce pian piano prima dell’esplosione finale. Quel “wake up, do you see light?” vuole forse rappresentare il momento di rivelazione del disco, per un album dove il riferimento alla luce è molto presente nella tracklist (benché esso non sia strettamente un concept, come già accennato). Eppure, tutto torna nell’ottica di questo duo finale; difatti The Logical End può essere vista come la vera e propria conclusione dell’album, mentre Rivers Of Nihil ci dona quell’effetto da “titoli di coda”, come se il film fosse già finito ma noi stessimo ancora qui, comodi in poltrona, a contemplare la sua meraviglia.

I Rivers Of Nihil con il loro self-titled si confermano essere una delle band più di talento della scena tech death/progressive death moderna, partorendo l’ennesimo album di elevatissima qualità, volutamente più d’impatto e meno arzigogolato del precedente The Work, ma che non si esime nell’offrire all’ascoltatore un disco ricercato e ambizioso che allo stesso tempo sa essere anche diretto ed estremamente appagante, anche grazie alla sua produzione assolutamente perfetta che farà godere non poco i nostri padiglioni uditivi. Una nuova lineup ed un nuovo inizio per una band che non smette di sorprenderci.

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