Recensione: Saviour Machine I

Di Alessio Gregori - 19 Settembre 2016 - 0:00
Saviour Machine I
Etichetta:
Genere: Gothic 
Anno: 1993
Nazione:
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77

L’album omonimo degli statunitensi Saviour Machine uscì nel lontano 1993 e fu partorito dalla mente eccelsa dei fratelli Eric e Jeff Clayton (rispettivamente alla voce e alla chitarra), ottenendo un ottimo successo ma rimanendo purtroppo confinato in un ambito fin troppo di nicchia rispetto all’impegno profuso e alla particolarità delle composizioni in esso contenuto. Con questa recensione cercheremo di ridare quindi un po’ di lustro a una band davvero unica nel suo genere e magari non proprio conosciuta a tutti.
Anzitutto il gruppo in  questione, di ideologia dichiaratamente cristiana, deve la sua notorietà soprattutto per aver rappresentato in musica, attraverso la gigantesca trilogia intitolata Legend part. I, II e III:I, il libro dell’Apocalisse. Il progetto in questione, che sarebbe dovuto, almeno nelle intenzioni della band, terminare con l’ultima uscita programmata il 7 Luglio 2007 (777) vide finalmente la luce solo nel 2011 con Legend part. III:II, a causa dei problemi di salute di Eric Clayton, il quale soffrì a lungo di una grave forma di esofagite che lo costrinse a lunghi periodi di inattività. Nonostante le sue varie apparizioni e collaborazioni con Ayreon, Divinefire e Narnia, alla fine sembra abbia deciso di abbandonare definitivamente la carriera di cantante e i Saviour Machine risultano al momento sciolti e quindi scomparsi dalle scene.
Sulla voce baritona di Eric andrebbe dedicato uno spazio apposito perché stiamo parlando di un vero e proprio artista che avrebbe tranquillamente potuto vedersela con i più noti cantanti lirici dell’opera, senza peraltro sfigurare nel confronto. Leggendaria è la sua teatralità e la sua presenza sul palco, influenzata da un forte senso di spiritualità, melodrammaticità e gotico romanticismo. Provate a cercare in internet qualche video delle sue performance dal vivo e capirete di chi stiamo parlando: una specie di predicatore che indossa abiti da monaco buddhista, abbellito di gioielli di ogni genere e con una croce incastonata sulla fronte: praticamente l’antitesi perfetta di Glen Benton dei Deicide!
Descrivere lo stile musicale dei Saviour Machine non è semplicissimo perché in esso convergono tanti generi differenti, dal sinfonico al gotico, dal dark al power con tanti passaggi epici e talvolta con spunti progressive. Ne scaturisce una proposta molto interessante e oggi, a distanza di anni, possiamo dire praticamente unica e irripetibile. Non fatevi quindi ingannare dall’artwork un po’ semplice e quasi banale, qui non troverete nessun tentativo di emulazione ma vi aspetta un sound molto personale e coinvolgente dall’inizio alla fine, pieno di misticismo e pathos, intriso da un forte profumo di incenso.
Tornando all’album in questione, le 12 tracce che lo compongono esprimono, come detto, tematiche di stampo prettamente religioso, andando così a inserirsi in un filone che potremmo definire a tutti gli effetti “white metal” , ovvero il rovescio della medaglia del “black metal” nel senso che, diversamente dal “christian metal”, esso condivide con i colleghi cattivi le atmosfere cupe e abbastanza opprimenti, creando perciò una certa contrapposizione tra le tematiche espresse ed il modo in cui queste vengono trasposte in musica.  Detto in parole semplici: immaginatevi un parroco che predica in veste leggermente blasfema e con un aspetto minaccioso e inquietante. Comunque al di là dell’inquadramento stilistico, i Saviour Machine suonano molto bene e risultano abbastanza fruibili, specialmente in quest’album d’esordio che, tutto sommato, è assimilabile ad una rock opera di stampo sinfonico. I pezzi da ricordare sono senz’altro l’opener “Carnival of Souls”, epica e gotica al tempo stesso, dove gli arpeggi classici si alternano ad esplosioni di chitarre e suoni incalzanti; la terza traccia “Legion”, singolo per eccellenza di questo lavoro; la lunga (oltre 10 minuti) e orientaleggiante “Killer”; la trascinante e struggente ballad “A world Alone” e la conclusiva “Jesus Christ”, un piccolo capolavoro di immediatezza e semplicità e testamento ideologico del gruppo. Da ricordare infine anche la power-ballad “Son of the Rain”, con un refrain un po’ ossessivo ma che ti resta in mente per giorni e giorni. Ci sono dei punti di debolezza che è doveroso sottolineare, quali una certa tendenza a trascinare certi momenti all’infinito e a rendere alcuni passaggi un po’ troppo pesanti e caricati di eccessiva teatralità, risultando pertanto un po’ noiosi a lungo andare. Tuttavia, se ancora non avete avuto la possibilità di ascoltarli, questo è il lavoro consigliato per cominciare ad approcciarsi a questa band, tanto particolare quanto unica nel suo genere. Successivamente, se non siete spaventati dalle opere faraoniche e pompose, potrete farvi suggestionare e incantare dalla già citata trilogia che ha certamente il merito di aver esaltato al massimo le eccezionali doti canore di Eric Clayton, personaggio indecifrabile ma leggendario e assolutamente degno di entrare a far parte degli annali della storia del metal.

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