Recensione: Scalpels for Blind Surgeons

Di Daniele D'Adamo - 9 Agosto 2019 - 0:00
Scalpels for Blind Surgeons
Band: Lord Gore
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2019
Nazione:
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78

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Quarto full-length per gli statunitensi Lord Gore, “Scalpels for Blind Surgeons”, a suggello di una carriera cominciata ormai ventun anni fa.

Tutto, fra moniker, copertina, titoli dell’album e delle song nonché war name dei musicisti, farebbe pensare a qualcosa di legato al grindcore o al gore death, interpretati con leggerezza e gran senso dell’umorismo. Probabilmente qualcosa di tutto ciò c’è, nel disco, ma una cosa è assolutamente certa: i Lord Gore mulinano in aria un signor death metal. Death metal coi fiocchi, per dirla in un’altra maniera. Tutt’altro che faceto anzi assai serio. La band dimostra di possedere tutte le armi necessarie, sia in termini di tecnica strumentale, sia in termini di songwriting, per dar luogo a un prodotto totalmente professionale, in grado di farsi notare, per bontà realizzativa, in un mercato discografico che dire affollato è dire poco.

Insomma, Gurge e i suoi quattro compagni di (folle) avventura sciorinano con noncuranza undici terrificanti bordate – le song – al calor bianco, ricche di varietà, freschezza e imprevedibilità. La band appare in forma strepitosa, con il ridetto Gurge a condurre il suo carro armato scivolando con destrezza fra growling e inhale, sempre ben centrati, ben interpretati, inseriti al posto giusto nel momento giusto. Le chitarre di Maniac Neil e Putrid Pierce sparano riff su riff, accarezzando più stili quali il brutal death metal, appunto, e anche il grindcore, come peraltro già osservato. Ma anche thrash ed heavy metal. Non mancando di non tralasciare qualche passaggio più elaborato e complesso sì da addentrarsi nei territori del technical death metal. Jesus H. Dump, il bassista, opera un’ottima copertura delle basse frequenze, dando un notevole spessore al sound dei Nostri. Davvero bravo Colon Bowel, capace di pestare le pelli con dovizia di particolari e buona variegabilità, non esimendosi, ovviamente, di scatenare, spesso e volentieri, l’allucinante foga dei blast-beats.

Una formazione coesa, perfettamente amalgamata, ove non c’è un elemento che sia manifestamente inferiore o superiore agli altri, per quanto concerne l’essere musicista a 360°. Formazione che, a dispetto delle apparenze… budellesche, riesce a centrare perfettamente l’obiettivo di trovare la strada che porta a uno stile personale, maturo, adulto, immutabile al succedersi dei brani.

Proprio le canzoni, come più su accennato, si rivelano essere la marcia in più del combo dell’Oregon. Passando e ripassando il percorso che porta dall’opener-track ‘Planet of Forgotten Flesh’ alla closing-track ‘Attack of the Stem Cell Junkies’, non c’è modo di annoiarsi. Ogni singolo episodio contiene qualcosa di proprio, di insito nel suo DNA, senza che si perda di mano il lungo filo rosso del discorso. Ciascuno di essi, inoltre, propone un’idea, una trovata; qualcosa, insomma, che eviti il pericolo di generare un’uniformità di scrittura che rovinerebbe un platter nato e cresciuto bene. E non manca neppure la melodia. Certo, poca, dato lo stile, ma comunque presente, specificamente in ‘Reborn in the Blood of My Enemies’. Traccia devastante, annichilente, dalla potenza esorbitate che, a un certo punto, però, si apre ad accordi più orecchiabili (sic!). Anche questa, una dimostrazione che il quintetto di Portland è in grado di districarsi in ogni ginepraio che gli si pari davanti onde proseguire per la sua via.

Sorpresa inaspettatamente positiva, questo “Scalpels for Blind Surgeons”. Onore, quindi, ai Lord Gore per aver saputo dare vita a qualcosa di interessante, diverso dal solito, terremotante,  esplosivo ma controllato in ogni suo attimo di vita.

Daniele “dani66” D’Adamo

 

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