Recensione: Scriptures

Di Marco Tripodi - 15 Ottobre 2020 - 8:00
Scriptures
Band: Benediction
Etichetta: Nuclear Blast
Genere: Death 
Anno: 2020
Nazione:
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67

Quanti anni sono passati da “Transcend The Rubicon“, terzo album dei Benediction? Ventisette. Quale growler avevano in formazione all’epoca i Benediction? Dave Ingram. Bene, Darren Brookes e Peter Rew, le due asce regine, nonché unici superstiti di quella line-up (e di quella originaria, sin dal 1989), hanno deciso di accorciare lo spazio che separa la band e i fan da quell’album, ritenuto da molti persino il loro miglior capitolo discografico, andando a ripescare sia Ingram che quelle sonorità, nel frattempo (minimamente) evolutesi nel corso di oltre un quarto di secolo. Non che i Benediction fossero intanto diventati i Dying Fetus, ma rispetto al death della prima metà dei ’90s, oggi il loro sound aveva perso alcune caratteristiche fondanti (oltre che un bel po’ di smalto). Personalmente, sono tra quelli che ritengono i primi due album – “Subconscious Terror” e “The Grand Leveller” – le migliori release in carriera degli inglesi; “Transcend The Rubicon” è stato un buonissimo album (certamente migliore di tutti i successivi) ma rispetto alla doppietta iniziale aveva già un po’ cambiato le carte in tavola. Lo slow death asfittico del biennio ’90/’91 lasciava il posto a canzoni più groovy, mediamente anche più veloci, dal sapore meno apocalittico, sinistro e doomeggiante. Per qualcuno questo è stato indice di crescita e maturità, per me ha segnato invece la (parziale) perdita di una personalità netta e distinta che i Benediction avevano sorprendentemente messo in luce sin dal debutto, in favore di un adeguamento a stilemi assai più diffusi in ambito death. Detto ciò, ribadisco come “Transcend” abbia certamente contribuito a spargere il seme dei Benediction urbi et orbi (limitatamente ad un genere pur sempre di nicchia come è il death metal), forte di una produzione bombastica, di un artwork eccellente e di un songwriting comunque solido e roboante, che nel 1993 era pur sempre tanta roba.

 

Oggi la band di Birmingham tenta per certi versi l’operazione fatta anche dai connazionali Angel Witch con “Angel Of Light“, ovvero riprodurre in laboratorio, con cura morbosa e certosina, le atmosfere di un’era geologica fa, quella dell’attraversamento del Rubicone, un’operazione nostalgia dichiarata apertamente e ovunque nelle interviste. Punti a favore del progetto: 1) risentire la band all’opera dopo 12 anni di silenzio discografico; 2) augurarsi qualcosa di più stimolante rispetto agli album degli anni 2000; 3) riassaporare sonorità tra le più riuscite a marchio Benediction. Punti a sfavore: 1) il ripiegamento su se stessi (forse a causa della mancanza di idee nuove?); 2) la scelta del secondo miglior periodo della band; 3) l’altissimo rischio di deludere le attese, poiché tornare sul luogo del delitto difficilmente si rivela una buona idea, i migliori romanzi di investigazione lo insegnano. Dopo ripetuti ascolti di “Scriptures“, lo stato d’animo dell’ascoltatore – nonché fan dei Benediction quale io mi reputo – si colloca un po’ nel mezzo. La ricerca spasmodica di “riff orecchiabili” (cito testualmente) con il preciso intento di “scrivere un tipico album dei Benediction che avrebbe potuto essere scritto vent’anni fa” (cito altrettanto testualmente) si avverte chiaramente, in ogni secondo di “Scriptures“. Per come l’ ho sentito io, nei suoi solchi manca la spontaneità, manca un’anima. Chiaro che i Benediction siano sempre loro, al 100%, riconoscibili in ogni plettrata, in ogni colpo di rullante (mai in blast beats), ma lo sono in cattività, come chiusi in una gabbia, obbligati a restituire all’audience la versione più Benediction possibile dei Benediction, rincorrendo lo stereotipo anziché l’istinto e l’ispirazione libera.

 

Intendiamoci, Ingram e soci hanno semplicemente il torto di aver dichiarato nero su bianco ciò che tante band fanno comunque, magari avendo la malizia di non urlarlo ai quattro venti (citavo appunto gli Angel Witch, ma gli esempi si sprecano, pensate a tutti quei gruppi thrash costretti come figlioli prodighi a ritornare all’ovile del thrash di tre decadi fa, dopo aver provato a contaminarsi con cromatismi differenti, malamente rigettati e vituperati dai fans).  “Scriptures” è un album discreto, suonato bene, ha  – ovviamente – tutte le note giuste al posto giusto, ha una Produzione che svecchia gli anni ’90 ma non suona anni 2020, si abbevera di cliché old school a più non posso e va a parare esattamente dove i Benediction avevano annunciato che dovesse andare a parare. E tuttavia nella intera track-list non c’è un solo pezzo che possa davvero competere con quelli dei primi tre album. “Scriptures” va al traino di “Transcend The Rubicon” ma non è “Transcend The Rubicon“, nemmeno la metà di “Transcend The Rubicon“. Tra i riff di “Embrace The Kill” ce n’è pure uno (quello nel pre-chorus) che deve tanto a quello di “Unfound Mortality“, piccoli trucchetti per tenere l’ascoltatore legato a doppio filo al passato glorioso, rassicurandolo al contempo sul fatto che poco o nulla è cambiato, a parte qualche capello più sfibrato e sbiancato sulla testa, e magari un po’ di adipe sull’addome. La prima metà della scaletta mi è parsa anche più brillante della seconda, che va perdendo per strada un po’ di scintillìo. In definitiva, al netto dell’ottima prova esecutiva, della solidità dell’ensemble, dell’effetto “si stava meglio quando si stava peggio”, e di un tiro complessivamente grintoso del platter, l’operazione “Scriptures” rimane quello che è, un album di puro fan-service, che mantiene i Benediction in una bolla interlocutoria, in attesa di capire se con la prossima release proseguiranno nel recupero del retro death metal o riprenderanno un cammino più radicato nel presente (ma con un lavoro che valga la pena però). Chi si accontenta gode, dunque godete di “Scriptures” se la priorità è riassaporare un “Transcend The Rubicon” parte seconda, altrimenti…. si, ok, e quindi, cari Benediction?


Marco Tripodi

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