Recensione: Seasons Of Tragedy

Di Fabio Vellata - 10 Febbraio 2008 - 0:00
Seasons Of Tragedy
Band: Benedictum
Etichetta:
Genere:
Anno: 2008
Nazione:
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84

Potenti, mai banali e carichi di personalità.

Li avevamo scoperti nel 2006, con un album, ‘Uncreation‘, che aveva destato grandissima attenzione per la forza dirompente e la massiccia teatralità di cui era intriso, esempio di moderno heavy metal, ipermuscoloso ed infuocato, per il quale si erano sprecati paragoni eccellenti, apparsi, ai più, azzardati o quantomeno prematuri.

Oggi, all’alba del 2008 ed alla luce del nuovissimo ‘Seasons Of Tragedy‘, da qualche settimana in “heavy rotation” nel lettore del sottoscritto, lo possiamo dire senza timori – almeno questa volta – di indulgere in eccessivi trionfalismi o rischi di smentita: i Benedictum sono una band vera, forte e vitale e confermano in pieno di essere una delle migliori novità in campo heavy comparse sulle scene da un buon numero di anni a questa parte.

Nulla più, nulla meno.

Confermate in blocco le ottime impressioni suscitate due anni fa: un nucleo di musicisti compatto, quadrato e dai valori tecnici ineccepibili, una “frontwoman” dotata d’incisiva espressività, versatile e vistosa al punto giusto da “bucare” il proverbiale schermo, un songwriting appassionante e – pur memore di lezioni antiche – dotato di spunti e contorni “propri” ed un suono “pachidermico” e possente, perennemente a cavallo tra esuberanza heavy, devastanti accelerazioni thrash ed improvvisi stacchi d’atmosfera.
La feroce creatura nata da una tale combinazione, erutta tracce abrasive ed incontenibili, caratterizzate dalla solita voce aggressiva ed intransigente (che non di rado tuttavia, indugia in tonalità maggiormente ricercate e riflessive) e da un costante magma sonoro composto da partiture taglienti come un rasoio, mitigate nel proprio impeto, da situazioni rarefatte e dilatate.

La coppia d’apertura “Shell Shock” e “Burn It Out” non lascia spazio a dubbi: power americano, Judas Priest ed un pizzico di thrash, sono l’intelaiatura di base dei pezzi, arricchiti da una verve trascinante – da headbanging forsennato – e dalla solita prestazione, interpretativa e strumentale, di prim’ordine. Spicca, nel secondo brano, la comparsata di Manni Schmidt dei Grave Digger, autore di un gustoso assolo nella parte centrale del pezzo.
Veronica Freeman conferma con piglio autoritario la propria candidatura al trono di miglior singer donna in circolazione, grazie ad un continuo saliscendi tra toni esasperatamente impetuosi e variazioni soffuse e melodiche, così come ampiamente documentato nella lunga “Bare Bones” (altro giro, altro guest, questa volta George Lynch dei Dokken) e nella monolitica “Within The Solace”, quest’ultima, tra i pochi punti deboli dell’album a causa di una certa monotonia di fondo.
Di grande efficacia si rivelano quindi le successive “Beast In The Field”, “Legacy” e “Nobodies Victim”, heavy dirompente e grintoso, in cui repentine accelerazioni in doppia cassa sono temperate dall’incedere cadenzato della ritmica e da parti chitarristiche di assoluta efficacia.
Ancora eccellenti le linee vocali della sempre più convincente Miss Freeman.
Come già accaduto nel precedente platter, ecco poi concretizzarsi l’ennesima cover-tributo ad un mito del settore. Sono i leggendari Accept questa volta, ad essere omaggiati con la rivisitazione di “Balls To The Walls”, brano già da par suo di fascino immortale, riproposto in chiave leggermente modernizzata ma assolutamente dignitosa.
Chiudono un disco, ancora una volta ricco e corposo, le magniloquenti “Steel Rain”, visionaria power ballad in cui le vocals si fanno più drammatiche a suggellare un’atmosfera ricca di tensione emotiva ed imprevedibile fascino, e la lunghissima title track, ulteriore esempio delle abilità compositive di una band sorprendente, in grado di rielaborare gli input derivati da tutto ciò che è stato grande nell’universo heavy da vent’anni a questa parte in una versione propria e ben definita, carica di pathos, mai banale e soprattutto, sempre in grado di comunicare emozioni ed immagini di potenza e “grandeur” musicale.
Nota di merito infine per Pete Wells, chitarrista dotato di un “tocco” pesante come il cemento armato, ma in ugual modo, carico di feeling e passionalità.

Passata la sorpresa, la sostanza è rimasta.
Dopo un esordio che aveva stupito ma che poteva rivelarsi un fuoco di paglia, il ritorno di Veronica Freeman e dei suoi Benedictum è stato tale da fugare ogni dubbio sulla bontà della proposta, confermando, come già sottolineato in apertura, quanto di buono intravisto qualche tempo fa.
Un gruppo “nuovo” che dimostra la padronanza dei veterani, con la freschezza di chi sa che ha ancora tutto da conquistare.
Una band che nell’arco di due ellepì ha assestato due bordate di tonante heavy che è ideale connubio tra vecchio e nuovo e si propone quale astro nascente sempre più luminoso e dotato di luce propria.

In conclusione, possiamo ribadire quanto scritto nel 2006 per “Uncreation”: I Benedictum hanno tutto per diventare grandi, determinazione, idee, suoni, immagine e soprattutto ottime canzoni.

Alla luce di un’ulteriore prova di bravura e sostanza, a voi decidere il loro futuro…

Tracklist:

01. Dawn Of Seasons (Intro)
02. Shell Shock
03. Burn It Out
04. Bare Bones
05. Within The Solace
06. Beast In The Field
07. Legacy
08. Nobodies Victim
09. Balls To The Wall
10. Steel Rain
11. Seasons Of Tragedy

Line Up:

Veronica Freeman – Voce
Pete Wells – Chitarra
Jesse Wright – Basso
Paul Courtois – Batteria
Tony Diaz – Tastiere

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