Recensione: Signs of Decay

Di Emanuele Calderone - 6 Dicembre 2011 - 0:00
Signs of Decay
Band: Livarkahil
Etichetta:
Genere:
Anno: 2011
Nazione:
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72

Che la Francia fosse una delle nazioni a godere di miglior salute in fatto di musica metal è cosa ormai nota. Analizzando l’ultimo quinquennio con orecchio critico, si può notare che alcune delle migliori uscite in ambito metallico provengano proprio dall’Esagono, volete qualche nome? Vi dicono nulla Deathspell Omega, Gojira, Alcest e Blut Aus Nord? Potremmo stare qui a nominare una caterva di altre band ma forse sarebbe inutile, quello che è importante ricordare è che la scena francese sembra più florida e ricca che mai di realtà più che interessanti.

Tra i gruppi di recente formazione, mi sono capitati sotto mano i Livarkahil, combo parigino attivo fin dal 2006 che con “Signs of Decay” incide il secondo atto della propria discografia.
Nato a tre anni di distanza dal precedente “First Act of Violence”, con il loro secondo parto, i francesi ci offrono 46 minuti di pesante death metal fortemente influenzato dall’hardcore. Il risultato, manco a dirlo, convince fin da subito. “Signs of Decay” è infatti il classico lavoro che, senza rivoluzionare le scene, senza presentare spunti chissà quanto brillanti e senza far gridare al capolavoro, riesce ad arrivare subito all’ascoltatore, lasciando una piacevole sensazione di soddisfazione.
Il merito va tutto ad un songwriting che, pur non eccellendo in originalità, risulta estremamente compatto e d’impatto. I brani sono massicci e suonano potenti fin da subito, oltre ad essere fruibili e assimilabili già dai primissimi ascolti. Le strutture sono lineari e i brani son di facile presa ma ciò, fortunatamente, non significa che questi ultimi siano banali e scialbi. Questo è grazie anche alle sinistre e soffocanti atmosfere che permeano gli undici episodi che compongono “Signs of Decay”.
Le chitarre di Kaiin e Träume macinano riff che è un piacere, costruendo linee melodiche azzeccatissime per la tipologia d’opera. I due chitarristi, oltre a sfoderare la solita ottima prestazione tecnica, sembrano a proprio agio sia nei -molti- momenti tirati, sia in quelli più melodici, che comunque non mancano. Il lavoro dei due axeman non delude neanche sul versante solista: i ragazzi ci regalano degli assoli che denotano un buon gusto in fase di composizione.
Il comparto ritmico viene affidato a Neil e a Skvm. Al primo è demandato il compito di disegnare le linee di basso; Skvm alla batteria pesta forte, lasciando davvero poco spazio a rallentamenti. Il batterista francese, pur se tecnicamente preparatissimo e puntuale più di un orologio svizzero, sembra stilisticamente un po’ troppo statico.
Nulla da eccepire, invece, per quanto riguarda l’operato di Herr Krauss, capace di variare continuamente di registro, passando con scioltezza dal growl al cantato tipico dell’hardcore. Il suo timbro non sarà particolare, ma bisogna ammettere che la voce del cantante si sposa alla perfezione con la proposta.

Per quel che riguarda le canzoni, in linea di massima non ci si può lamentare. Il concept attorno al quale si sviluppa il cd narra dell’autocrazia -ossia una forma “estremizzata” della monarchia assoluta- religiosa.
Alcuni brani svettano sia per livello qualitativo che per varietà. Tra quelli che maggiormente mi hanno colpito, citerei “The Flesh of All Damned”, cadenzata e pesante come non mai, che rievoca certi Behemoth, specialmente nei passaggi più atmosferici e rallentati. Un altro punto focale dell’album è rappresentato da “Art of Bleeding”, con buone probabilità la canzone più completa e varia dell’album. Non manca davvero nulla, dalle accelerazioni vertiginose agli stacchi più d’atmosfera: in questo caso i Nostri danno sfoggio di tutte le loro abilità, scrivendo una song di grande effetto.
Particolarmente fascinosa anche la successiva “We Hail the Victory”, che smorza parzialmente la tensione grazie a scelte melodiche meno estreme. Il lavoro di chitarra raggiunge il suo culmine proprio in questo pezzo, grazie ad uno sforzo enorme compiuto da parte dal duo Kaiin e Träume.
I problemi si fanno sentire invece in track quali “In Light We Die”, “Heaven Shall Fall”, “Quiet Heresy” e “The End of Everything”, le quali, pur se notevoli prese singolarmente, si rivelano fin troppo somiglianti l’un l’altra, finendo per annoiare un poco.

Come era logico aspettarsi data la tipologia di uscita (e, aggiungiamo noi, visto anche il “patrocinio” della Listenable Records), la produzione si attesta su livelli qualitativi ottimi. La pulizia dei suoni strabilia tanto è curata. Ciascuno strumento risalta in ogni frangente, in modo tale da evidenziare la buona prestazione tecnica dei francesi.
Non male l’aspetto grafico, anch’esso realizzato con cura. La copertina dai toni grigi -che ricorda molto da vicino quella di “Evangelion” dei polacchi Behemoth- rende chiari sin da subito i temi trattati nel concept album.

I Livarkahil si dimostrano dunque l’ennesima piacevole novità proveniente dalla Francia. “Signs of Decay” nonostante qualche punto d’ombra e qualche incertezza di troppo, viaggia su standard qualitativi ampiamente soddisfacenti. Il combo, date le potenzialità espresse in questa sede, sembra poter fare addirittura molto meglio. Sperando che i nostri possano dunque compiere il definitivo salto di qualità, per ora non ci rimane che gustarci quanto di buono ci hanno qui proposto.

Emanuele Calderone

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01. In nomine Patris
02. When hell is near
03. Quiet heresy
04. The end of everything
05. Art of bleeding (feat Franck & David of Lyzanxia)
06. …We hail the victory
07. Above all hatred
08. The flesh of all damned
09. In light we die
10. Heaven shall fall
11. Signs of decay

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