Recensione: Sons Of Thunder
In questo ciclo di decadenza di idee, dove abbondano le rivisitazioni musicali delle decadi passate e presto si raggiungerà il record di reunion illustri, non stupisce poi più di tanto che resusciti anche il monicker Driver, oggi come allora creatura del singer Rob Rock. Si scrive relativamente all’anno 1999, quando i losangeleni conquistano un buon successo grazie a un Ep contenente cinque tracce – uscito su musicassetta – che coniuga al meglio la potenza dell’heavy metal alla sensualità dell’Hard Rock. I tempi per questo tipo di sonorità, tuttavia, risultano demodé. Di lì a poco sarebbe esploso il fenomeno Grunge e i Nostri debbono giocoforza lasciare cadere le velleità a livello di band e perseguire altri progetti. Rob Rock si afferma quindi come uno dei migliori cantanti in ambito Hard’n’Heavy melodico sia a livello solista che collaborando insieme con Impellitteri, Joshua, Warrior, Axel Rudi Pell e Avantasia mentre il chitarrista Roy Z diventa produttore di razza (Bruce Dickinson, Halford, Judas Priest, Sebastian Bach, Rob Rock, Tribe of Gypsies, Helloween). L’altro fondatore, il batterista Reynold “Butch” Carlson, si consola collaborando con Jag Panzer, Tribe After Tribe, Missing Persons, Rob Rock e Kollarbone. Tornando ai giorni Nostri: i tre coinvolgono, per completare la formazione, il tastierista Edward Harris Roth (Glenn Hughes, Ronnie Montrose, Rob Halford) e il bassista Aaron Samson (Odin). Il gioco è fatto.
Sons Of Thunder, idealmente, perpetua più di vent’anni dopo il discorso iniziato con l’album Project Driver del 1987, uscito sotto il monicker M.A.R.S. – una all star band con Mr. Rock alla voce – e il sopraccitato Driver Ep. Il disco, in generale, suona come la versione heavy metal dei Joshua piuttosto che della Axel Rudi Pell band, con un Rob in forma smagliante, penetrante come ai bei tempi, e un Roy Z assoluto mattatore della sei corde durante tutta la durata del lavoro. Il resto della band sforna passaggi di classe finissima, figli di un’esperienza infinita lungo le tortuose vie dell’Hard.
Oltre alle canoniche e prevedibilissime, per un album del genere, ballad Change of Heart e I Believe in Love spiccano episodi speed come la violentissima title track Sons of Thunder – l’highlight del disco – e mid tempo possenti che rispondono al nome di I’m a Warrior, fortemente connotata da influenze “Malmsteeniane”, Hearts on Fire, dal riff affilatissimo e la cavalcata Winds of March. Fly Away vive di tastiere di sottofondo e si snoda attraverso trame a la Dokken dei tempi d’oro, Never Give Up fa il verso ai Van Halen, Dark World è un salto ai tempi dell’Hair Metal, Only Love Can Save Me Now rispolvera ancora le cose del velocissimo guitar hero di cui sopra e Tears That I Cry gode di chorus muscolosi alternati a stacchi melodici da manuale. Nessun filler di rilievo da segnalare, quindi.
Anche se l’andazzo è sempre quello che ci si aspetta da un talentuoso come Rob Rock dietro il microfono, una sana, bella botta di HM diretto ma melodico in mezzo alle gengive non fa mai male, come potranno sicuramente sottoscrivere tutti i fan delle sonorità vicine a quelle delle band citate all’interno della recensione.
Stefano “Steven Rich” Ricetti
Tracklist:
1. Titans of Speed
2. I’m a Warrior
3. Fly Away
4. Heart’s On Fire
5. Sons of Thunder
6. Never Give Up
7. Change of Heart
8. Dark World
9. Winds of March
10. Only Love Can Save Me Now
11. Tears That I Cry
12. I Believe in Love
Line-up:
Rob Rock – Vocals
Roy Z – Guitars
Reynold “Butch” Carlson – Drums
Ed Roth – Keyboards
Aaron Samson – Bass