Recensione: South of the Sun

Di Matteo Pedretti - 23 Ottobre 2021 - 6:30
South of the Sun
76

A dispetto della giovane età dei suoi componenti, The Stone Eye è un progetto più che consolidato. Il gruppo si forma a Philadelphia nel 2014, allorché il cantante/chitarrista Stephen Burdick e il batterista Jeremiah Bertin fondono le proprie forze dedicandosi sin da subito, con grande tenacia, alla composizione di musica originale. Nonostante alcuni cambi in seno alla lineup, tra il 2014 e il 2020 la band incide ben cinque LP e un EP. Ma non è tanto (o non solo) l’aspetto quantitativo a sorprendere, quanto quello qualitativo.

Si tratta infatti di una proposta decisamente ricercata: un Progressive Sludge/Stoner Rock definito dal connubio tra chitarre sporche, gonfie e downtuned, linee vocali versatili, melodiche e spesso ipnotiche e una sezione ritmica dinamica e imprevedibile. Il netto orientamento Progressive che caratterizza l’impronta compositiva dei Nostri è rintracciabile nei repentini cambi di tempo e atmosfere, in uno stile che – pur rimanendo molto personale – si pone sulla scia di nomi come Baroness, Intronaut e degli ultimi Elder, con reminiscenze di quell’Alternative Rock dal riffing più cupo e fangoso di Alice In Chains e Soundgarden.

Con il cristallizzarsi della formazione nella sua configurazione attuale, che vede – oltre ai due membri fondatori – Christian Mechem alla sei corde e Mike Pacca al basso, The Stone Eye sono pronti a dare alle stampe “South of the Sun”, il loro sesto album uscito il 15 ottobre su Eclipse Records, etichetta indipendente dell’area di New York.  Nei suoi circa 50 minuti, il disco riesce a risultare piuttosto vario, con una prevalenza di brani Progressive Stoner/Sludge d’impostazione Rock, come l’opener “Who’s There”, il singolo “Catatonia”, la schizofrenica “60/26”, la psichedelica “Aleutian Summer” ed “Ethereal Visions”, e – più raramente – Metal, come “Presence of the Mind” (nonostante la rilassata sezione centrale) e “Riots”.

La fluida alternanza tra i succitati episodi, perlopiù dai costrutti intricati e complessi, e pezzi relativamente semplici e lineari contribuisce a conferire all’album una buona scorrevolezza, concedono momenti di ascolto meno impegnato, come nel caso di “Halfway House”, un Heavy Blues accostabile ad alcune cose dei King Gizzard & The Lizard Wizard e che diverte con i cambi di tempo della parte finale. Piuttosto diretti anche lo Stoner stradaiolo dell’altro singolo, “Witches & Raptures”, di scuola Queens Of The Stone Age, e l’Alternative Rock elettro-acustico di “Gone Away”, che sembra uscita dalla Seattle dei primi anni Novanta. Non mancano, infine, momenti più soft e riflessivi, in linea con la tradizione Folk nordamericana, come la title-track, con le sue arie soavi, la percussiva “Homage to Micah” e la closer “Saylo”.

Con “South of the Sun” il combo di Philadelphia ci consegna brani variegati dall’elevato profilo tecnico-compositivo: senza mai annoiare con inutili virtuosismi, i ragazzi dimostrano di saper suonare e, cosa più importante, sembrano divertirsi un mondo nel farlo. Un approccio schietto che traspare anche dalla produzione che, senza artificio alcuno, lascia parlare, o per meglio dire suonare, la sola band.

Voce fuori dal coro del panorama Stoner statunitense, The Stone Eye meriterebbero con questo disco di ritagliarsi una posizione di riguardo nella scena underground. Benché emergano chiaramente i loro principali riferimenti ed influenze, è pregevole l’originalità che i quattro riescono a infondere in ogni brano, senza mai appiattirsi su soluzioni trite e ritrite, ma sempre pronti a dire la loro, anche con (più di) un pizzico di ironia, come traspare dai loro video. Non è da tutti …

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