Recensione: Spine

Di Lisa Deiuri - 29 Marzo 2024 - 16:55
Spine
Band: Myrkur
Etichetta: Relapse
Genere: Folk - Viking 
Anno: 2023
Nazione:
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75

La nascita di un figlio è sempre un evento di rottura con il proprio passato. Nella nostra cultura lo stereotipo della donna che attraversa il prima e il dopo senza fatica è rappresentato da una specie di superpotere, l’istinto materno, qualcosa che fa pensare a una caratteristica connaturata, che rende fluido il passaggio perché siamo state ‘programmate’ per avere figli.

Ho una cattiva notizia: l’istinto materno non esiste e chi ci crede – per prime molte donne – scopre invariabilmente che rivoluzionare la propria vita, a cominciare dalla dimensione corporea che già è testimone di una profonda mutazione durante la gravidanza, non è quel che si dice una passeggiata.
Semmai, è un viaggio, con i suoi momenti di forte difficoltà, spesso dovuti all’ambiente circostante, ma anche di estrema bellezza, quando il contatto con chi generiamo si fa così forte da donarci un potere (questo, sì, lo è!) profondamente umano, che ci rende capaci di superare la paura e creare un nuovo mondo.

Questo è il tema di Spine, quarto full-length di Myrkur, la one woman band danese che porta avanti da quasi un decennio la visione artistica della polistrumentista Amalie Bruun della quale, anche in questo album, la voce è capace di scendere nelle profondità degli stati più oscuri dell’umano e risalire verso luoghi luminosi e incontaminati come se la faccenda fosse del tutto naturale.

Il legame con i lavori precedenti, soprattutto Folkesange, è presente ma Spine, uscito alla fine dello scorso anno sempre via Relapse Records, è, a sua volta, un punto di rottura, una sfida aperta con il futuro perché, di base, è un disco dark folk con suggestioni black metal che si concede a immissioni musicali eterogenee, non sempre perfettamente amalgamate, anche se orecchiabili.

Un po’ come se i Wardruna dell’ultimo periodo si fondessero con certe atmosfere dei Dead Can Dance prima maniera e una punta dei Nightwish giocasse con le texture synthpop ottantiane tipo A-Ha o The Human League, per capirci.
Detta così, lo ammetto, sembra un gran casino ma, in realtà, questo è il punto di forza dell’esperimento di Myrkur: il coraggio di esprimere un’altalena di emozioni senza il bisogno di doverle per forza etichettare.

Infatti, se, da un lato, rispetto al canone ‘viking’ di Folkesange, in Spine le atmosfere si fanno più attuali e inquietanti come in certi passaggi di ‘Mothlike‘ dove, a dispetto della relativa ariosità della voce, chitarra, batteria e soundscape elettronico sottolineano i momenti di ansia che l’artista deve aver vissuto durante la reclusione del periodo pandemico, dall’altro il piano in apertura e il successivo incedere quasi epico di brani come ‘My Blood is Gold’ o ‘Devil in the Detail‘ – qui la voce è eterea ma la chitarra chiude aggressiva – aprono portali su un futuro incerto, tutto da creare.

Insomma, forse Spine è il sentirsi a un punto della storia personale e artistica nel quale ciò che conta è trovare la quadra fra passato e presente: un linguaggio musicale nuovo, acerbo sotto alcuni aspetti, ma sicuramente originale. Che sia un ulteriore inizio di un nuovo affascinante ed eterogeon modo di miscelare tra loro idee così ispirate alle quali siamo da sempre abituati?

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