Recensione: State of Mind

Di Riccardo Angelini - 8 Febbraio 2004 - 0:00
State of Mind
Band: Elegy
Etichetta:
Genere:
Anno: 1997
Nazione:
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75

A due anni di distanza dall’ottimo Lost, tornano gli olandesi Elegy, orfani di Eduard Hovinga alla voce: una perdita questa che avrebbe segnato, nel bene e nel male, la sorte futura della band. La scelta per il sostituto del singer danese cade infatti su Ian Parry, dotato non solo di una voce alta e potente, decisamente più ‘piena’ rispetto al collega, ma anche di una forte personalità, che alla lunga dirotterà lo stile musicale della formazione su coordinate a lui più gradite. Al di là dei gusti, tuttavia, sul piano tecnico non c’è spazio per le critiche, come Parry avrà ampiamente modo di dimostrare, tanto che il suo innegabile talento gli varrà frequenti paragoni (forse azzardati) con un personaggio del calibro di R. J. Dio.

Veniamo ora al sound: la band continua a navigare su coordinate prog-power, ma rispetto all’ultimo episodio traspare subito un generale indurimento del sound ed un enfatizzarsi della componente prog a scapito di quella power. Da ciò deriva un’ovvia perdita di immediatezza, che rende questo State of Mind più complesso e lungo da metabolizzare rispetto ai predecessori. I toni si fanno inoltre più cupi e pesanti, distaccando ulteriormente la proposta attuale dal recente passato.

E questo appare evidente fin dalla prima Visual Vortex, preceduta dall’intro sinfonica Equinox, piacevole ma un po’ fuori luogo: bull’s eye subito sulla voce di Parry, che conduce i giochi con invidiabile maestria, supportato dalla chitarra oscura di Van de Laars. Un inizio più che discreto, ma che non trascina come dovrebbe. Tutt’altro discorso per la seguente Trust, pezzo convincente sotto ogni aspetto, condotto da un ottimo accompagnamento di tastiera ed un riffing potente e spietato, che esplode in un refrain trascinante e melodico al punto giusto: il risultato è una delle song più dirette e coinvolgenti dell’album. Atmosfere cupe e cori caliginosi caratterizzano Beyond, una traccia complessivamente positiva, che rischia però di infrangersi proprio nel ritornello, in cui le linee vocali del pur sempre ottimo Parry appaiono eccessivamente forzate. Ci si riavvicina poi a sonorità power con Shadow Dancer, per la quale vale un discorso opposto alla precedente: strofa lunga e forse eccessivamente dilatata che tuttavia ben si presta a creare la giusta tensione prima del ritornello diretto ed efficace, di quelli che si stampano in testa fin dal primo ascolto. Melodie arabesche introducono l’eloquente Aladdin’s Cave, ancora una volta magistralmente interpretata da Parry, ed ancora una volta caratterizzata da atmosfere oscure ed inquiete, merito anche delle tastiere, discrete negli accompagnamenti ma preziose per l’effetto globale. Si giunge così alla breve title track, un altro degli highlights del disco, imperiosa nel suo incedere cadenzato e trascinante nel refrain melodico ed esplosivo, in cui un ruolo fondamentale è giocato dall’ottima combinazione cori/voce solista. Brusca interruzione e repentino cambio d’atmosfera: è il momento della ballad, Destiny Calling, dolce e suadente, che deve anche ad un drumming preciso ed enfatico il notevole impatto emotivo del chorus strappa-consensi. La traccia si spegne lasciando spazio alla strumentale Resurrection, che altro non è se non un’introduzione a Losers Game, in cui si rivedono soluzioni a tratti vicine ai vecchi Supremacy e Lost, ma pur sempre rielaborate alla luce del nuovo stile del gruppo. Finale in grande stile con Suppression, in cui a stupire non è tanto il pur buon refrain ma soprattutto il curatissimo lavoro strumentale che lo circonda: una sezione ritmica sopra le righe scandisce con grande abilità i tempi di voce e chitarra, ma la ciliegina sulla torta sono di nuovo le tastiere, mai invadenti e ripescate sempre al momento ideale per dare alla canzone quel tocco di classe in più che la distingue dalle altre.

Dunque un’altra buona prova della band olandese, capace di confermarsi ad alti livelli anche dopo la dipartita di una pedina fondamentale come Hovinga, e che non mancherà di deludere fan ed appassionati del genere. Manca forse quel quid che aveva reso grandioso un piccolo capolavoro come Lost, ma ciò non toglie che quando questo disco entrerà nel vostro lettore impiegherà parecchio tempo prima di uscirne.

Tracklist:

  1. Equinox
  2. Visual Vortex
  3. Trust
  4. Beyond
  5. Shadow Dancer
  6. Aladdin’s Cave
  7. State of Mind
  8. Destiny Calling
  9. Resurrection
  10. Loser’s Game
  11. Suppression

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