Recensione: Sunrise To Sundown

Di Eugenio De Gattis - 10 Aprile 2016 - 8:00
Sunrise To Sundown
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2016
Nazione:
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75

Viola e nero stanno bene vicini. Meglio ancora se il viola è in tonalità Deep Purple ed il nero è quello dei Black Sabbath. Deve pensarla così pure Michael Amott (chitarra e mastermind anche degli Arch Enemy) a proposito dei suoi Spiritual Beggars. L’album in questione è il nono, e continuare a parlare di side-project, dopo oltre venti anni di carriera, sarebbe ormai anacronistico. Del resto, il gruppo sembra aver trovato un assetto decisamente stabile ed il nuovo lavoro conferma, appunto, le influenze già percepite in Earth Blues. Anzi, tornando alla metafora iniziale, per quest’ultimo disco la tavolozza dei colori si arricchisce delle tinte arcobaleno tanto care a Ronnie James Dio e del bianco di casa Whitesnake. Insomma, un’esplosione di colori. Come a primavera. E scherzi a parte, non è forse un caso che “Sunrise To Sundown” abbia anticipato di poco l’equinozio di marzo o, in generale, quel periodo in cui alcuni rettili tornano a vivere e sono soliti passare le giornate a scaldarsi sotto il Sole. Proprio come suggerisce la lucertola raffigurata sull’artwork. Sì, questo è un album fresco ed immediato: colonna sonora ideale da qui fino alla prossima stagione. Ma non stupiscano certe scelte. Per chi seguisse la scena a singhiozzo, infatti, va ricordato che gli Spiritual Beggars hanno da tempo abbandonato le atmosfere Stoner, in favore di un Hard Rock più convenzionale. Specie da quando al microfono c’è Apollo Papathanasio (ex Firewind). Tant’è che agli esordi un titolo del genere lo avrebbero magari declinato al contrario, tipo: “From Dusk till Dawn”. Inutile, comunque, piangere sul latte versato o star lì a ribadire che in passato sarebbe stato lattepiù. Anche perché, a meno che uno non abbia gusti convintamente modernisti, le notizie in fondo sono buone. E’ vero, la componente Psych Rock è ridotta all’osso, confinata all’interno del break su “No Man’s Land”, e l’eco della scena Desert è forte esclusivamente in “Lonely Freedom”, ma l’impressione è che ogni traccia contribuisca in modo diverso al raggiungimento di un obiettivo comune. Fatta eccezione per l’ossessiva “I Turn To Stone” (che nell’outro regala addirittura vagiti à la King Diamond), il resto è tenuto insieme da una dose di energia davvero positiva. Impossibile resistere, ad esempio, alla carica di “You’ve Been Fooled” o non sorridere di fronte ai richiami evidenziati in precedenza e così marcati, che per certi ascoltatori potrebbero quasi valere da “comfort music”. Si va da un po’ di Mark II in “Southern Star” a tantissima Mark III in “Diamond Under Pressure”, nella quale troneggia l’Hammond di Per Wiberg (già Opeth). Ancora molto Coverdale per “Sill Hunter”, poi Dio in “Hard Road” e Rainbow a palate su “What Doesn’t Kill You”. Ci sono, inoltre, un paio di passaggi più maturi in cui gli Spiritual Beggars provano a distaccarsi dai canoni strettamente old style, per esplorare con personalità un Hard Rock alla maniera dei Black Label Society, come in “Sunrise To Sundown” e, soprattutto, “Dark Light Child”

E’ necessario, infine, un discorso a parte per alcuni aspetti riguardanti la produzione del disco. Le tracce sono state registrate dal vivo e, se da un lato è evidente il grande ritorno in termini di feeling, dall’altro la scelta porta con sé qualche imprecisione. Per intenderci, non siamo in presenza di episodi giustamente nostalgici, tipo Ian Gillan che in “Space Truckin’” prende fiato manco fosse Roberto Da Crema, ma di cose vicine piuttosto al pedale cigolante su “Since I’ve Been Loving You”. Ad ogni modo, considerato che nell’era del digitale un evento simile sia ormai più unico che raro, si fa fatica ad esprimere giudizi negativi. E senza dubbio i musicisti sono tutti di altissimo livello. C’è però da rendere conto dei suoni provenienti dal set dei piatti e, nel dettaglio, dal charleston, a tratti davvero invadente. Ora, per una fascia di fan potrebbe essere tutto nella norma (visto che lo stile è comunque un trademark) e va bene che dietro le pelli ci sia Ludwig Witt che attualmente milita proprio in quei Grand Magus (dell’ex JB) teorici di un sound maggiormente focalizzato sulla batteria, ma in certi casi questo singolare tappeto sonoro diventa una sorta di “fruscìo” ed è oggettivamente troppo presente nel mixaggio. Meno male che, per quanto sin qui espresso, il disco non si addica per nulla a spazi chiusi, riflessioni solitarie e notturne… ma vada fatto girare in compagnia, all’aperto o magari in auto con i finestrini abbassati, come richiede il momento.

 

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