Recensione: Super Collider

Di Luca Recordati - 12 Luglio 2013 - 0:01
Super Collider
Band: Megadeth
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
Nazione:
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57

Quattordicesima uscita sulla lunga distanza per i Megadeth, gruppo che, al di là dei gusti personali, non può non essere considerato tra i padri fondatori del thrash metal e tra i nomi di punta dell’heavy metal tout court. Nel momento in cui ci si appresta alla disamina del lavoro di un gruppo di tale importanza, non è facile mantenere il giusto distacco da ciò che esso rappresenta o che ha prodotto nel corso di anni di onorata carriera. Il rischio del preconcetto dunque può esserci, indubbiamente, ma ci sono casi in cui la realtà delle cose è talmente evidente, che formulare un giudizio è quasi istintivo…e pare che, in questo caso, i Megadeth abbiano davvero contribuito in tal senso.

Dopo un album davvero convincente come “Endgame” e uno solo discreto o, comunque la pensiate, interlocutorio come “Th1rt3en”, Dave Mustaine e soci si ripresentano sulle scene con “Super Collider”, edito dalla Tradecraft, etichetta nata ad hoc per curare le uscite della Megamorte e, forse, per garantire maggiore libertà gestionale alla band. Interessi economici e controllo sulle attività musicali ed extra-musicali a parte, la prima cosa che colpisce l’attenzione dell’ascoltatore è un generale ammorbidimento del suono rispetto alle ultimissime uscite del gruppo e una maggiore linearità (leggasi: facilità di ascolto) delle composizioni. Non tutto il male deve per forza di cose giungere per nuocere; tante volte la musica, scevra di inutili orpelli o sovrastrutture, può suonare più genuina, più istintiva, più sentita…ma, ahimé, non sembra essere questo il caso.

Con un’apertura affidata a “Kingmaker”, il pezzo migliore del lotto secondo il parere di chi scrive, c’è l’impressione di avere a che fare con la solita classe targata Megadeth: un’introduzione minacciosa, crunch di chitarra solido, versi pieni e ben costruiti che si susseguono senza soluzione di continuità, ritmiche nervose e frenetiche, inserti solistici convincenti, refrain coinvolgente come ai vecchi tempi…ma, purtroppo, si tratta davvero di un fuoco di paglia. Già con la title-track la musica cambia: mid-tempo debole, ritornello banale e primi segnali di quello che sarà il leitmotiv dell’intero album, ossia le potenzialità di un asso della chitarra come Chris Broderick davvero messe nel dimenticatoio, in questo caso relegate al “solito” assolo a 3/4 del pezzo o, come nella successiva “Burn!”, limitate a comparsate simili ad estemporanei cameo davvero poco incisivi. E a proposito di poca incisività, la stessa “Burn!” è un esempio in tal senso. Pezzo davvero mediocre, che si regge in toto su uno dei chorus più banali mai scritti da Dave Mustaine: a parte il già negativamente famoso “burn baby burn…’cause it feels so good”, da menzionare anche una delle peggiori rime della lingua inglese di sempre, la terribile fire/desire sentita già mille volte e che fa capolino anche in questo pezzo. Skip immediato verso “Built For War”, dove le cose sembrano migliorare, ma solo leggermente, per lo meno in termini di energia e dinamismo del pezzo. Spazio a “Off The Edge”, abbastanza trascinante nel seppur non memorabile refrain. Si noti, però, come venga quasi naturale soffermarsi solo sui momenti più memorizzabili di ciascun pezzo, proprio perché si tratta di brani tutto sommato semplici, privi di ricerca o approfondimento. Ripetiamo, non che questo sia necessariamente un male (qualcuno ha detto “Youthanasia”?)… però, si tratta dei Megadeth, di un signor compositore come Dave Mustaine e di Chris Broderick, assieme a Jeff Loomis forse il solista più in forma al momento: esigere qualcosa di più è assolutamente lecito; qualcosa come la seconda parte di “Dance In The Rain”, ad esempio, più intricata e nervosa. Ma è solo una breve illusione che non si ripete nelle tracce successive, dal carattere incerto, se non davvero irriconoscibile, come la spiazzante “The Blackest Crow”, come Forget To Remember dalle atmosfere che ricordano i The Cult (?) o come la breve “Don’t Turn Your Back…”, che, dopo un inizio promettente, si rivela un pezzo davvero azzeccato….se solo stessimo ascoltando il nuovo album dei Foo Fighters!! A chiudere, la sempre bella “Cold Sweat” (cover dei Thin Lizzy) che ha il sapore di un buon dessert dopo un pessimo pranzo.

Poche zampate di classe e un pugno di ritornelli che si memorizzano facilmente non bastano di certo a risollevare le sorti di un album deludente per la band di Vic Rattlehead, ancora una volta estromesso dalla copertina. L’unico augurio è che si tratti solo di un (nuovo) momento temporaneo di annebbiamento: MegaDave & Co. ci hanno già abituato ad inaspettati colpi di coda; non resta che l’auspicio di una pronta ripresa a partire già dal prossimo lavoro e che si possa tornare ad avere a che fare con la nevrotica ed aggressiva intelligenza targata Megadeth.

Voto 50/100

Vittorio “Vittorio” Cafiero

 

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“You forget to remember…it’s time to say the long goodbye”

Ne è passato di tempo da quando nel lontano 1985 la creatura di Dave Mustaine ha preso corpo e anima, e dopo ventisette anni e 13 album esce finalmente “Super Collider”. Restare sulla cresta dell’onda e sfornare album molto validi in continuazione non è facile per nessun gruppo, anche se ti chiami Megadeth e hai un nome talmente pesante sulle spalle, da dover sempre accontentare lo zoccolo duro dei fan che ti seguono, nel bene e nel male. Non pago di questo, l’ex metallica ha voluto ammorbidire un suono collaudato, pensando di poter catturare nuove leve, senza lasciare dietro una scia di ovvie critiche. Quello che si evince è un Dave stanco, che sta tentando il tutto per tutto pur di rimanere a galla: “United Abominations” era un signore album, gli altri due, precedenti a questo, onesti e sicuramente migliori del deludente “Risk!” e quindi “Super Collider” lo paragonerei più a “Cryptic Writings”, anche se gli mancano quelle due o tre canzoni che lo tengono in piedi.

In un momento difficile per la musica e soprattutto per le etichette discografiche, nasce la Tradecraft di Mustaine grazie all’appoggio di Andy Gould, creatore dell’Universal Music Enterprises; cosa abbia spinto il frontman a fare questo passo lo sapremo solo in futuro. Che si stia stancando della sua creatura e voglia dedicarsi a scoprire nuovi talenti? Solo il futuro c’è lo dirà. Parlando di altri progetti futuri, sembra in dirittura d’arrivo una collaborazione live con l’ex Metallica Jason Newsted, per suonare alcune vecchie canzoni scritte per i Metallica da Dave. L’agenda inoltre vede la presenza continua in USA del Gigantour.

Ritornando all’album, si nota subito una produzione moderna e pulita che permette a tutti gli strumenti il giusto grado di spazio. Oltre a ciò però ci degli elementi che la rendono tamarra: suoni di elicotteri, di moto, di aria e perché no anche un intro molto folk caratterizzata dalla presenza di un banjo, oltre ad un violoncello, un violino ed un violino folk. Da un gruppo come i Megadeth questo è forse veramente troppo e maschera le evidenti pecche di songwriting?

Per quanto riguarda le individualità, non c’è molto da dire sulla prestazione alta di Shawn Drover, ma qualcosa su Chris Broderick e David Ellefson. Non è che non diano il massimo, ma siccome sono due ottimi interpreti del loro strumento – farebbe piacere a chiunque averli nel proprio gruppo! – ci si aspetta sempre di più e qui abbassano il ritmo, non creano particolari riff difficili, pieni di note e iperveloci, come su “Rust in Peace” e “United Abominations”, e si abbandonano ad un andamento da crociera. Sembra più che in altri album, che il diktat sia di non offuscare il genio di Dave: non a caso i suoi assoli superano per numero quelli di Chris. Le noti dolenti si hanno quando si passa a parlare del “biondino”, perché la sua prestazione è sotto la media. Basta andare ad un concerto per realizzare che ormai non c’è la fa più, che è stanco e la voce è nettamente peggiorata. Anche con i moderni strumenti digitali, i miracoli non sono del tutto possibili e si sente subito che la voce non è più graffiante come un tempo e che si sta sforzando; non tutte le canzoni evidenziano però questa pecca.

Parlando del songwriting, si nota immediatamente un abbassamento della velocità e una semplificazione dei riff, che a mio avviso giocano come detto sopra ad acquistare nuovi fan. Quello che però risulta molto ruffiano è l’uso della citazione, per carità, a volte velata e a volte no, e da loro non ce lo aspettavamo e rovina un po’ la considerazione finale: “Kingmaker” cita quasi palesemente “Children Of The Grave” dei Black Sabbath; il riff iniziale, dopo l’intro, di “Don’t Turn Your Back” è una autocitazione di “Sleepwalker” mentre “Cold Sweat” è una cover dei Thin Lizzy. Non è che le altre canzoni siano molto più originali. Alcuni ritornelli dopo pochi ascolti si fanno ricordare, ma gli altri album (“Risk” e “Cryptic Writings” a parte) erano di un altro pianeta. Senza fare un track to track, dico che la migliore e la più ispirata è “Don’t Turn Your Back…”, perché è quella che si discosta maggiormente dalle altre e ha un ritmo più da canzone thrash e ricorda il glorioso passato, mentre il resto è più sul versante “banal-heavy”. Anche la copertina, come tutto il booklet, è inferiore anche a quello già bruttino di “Cryptic Writings”.

In conclusione “Super Collider” è migliore di “Risk”, ma sullo stesso livello di “Cryptic Writings”, superando comunque la sufficienza, perché le canzoni sono tutte suonate onestamente e dopo svariati ascolti possono entrarti in testa, per cui il minimo sindacale è stato raggiunto. Detto ciò però, il ritornello di “Forget To Remember” sembra essere il testamento di una band ormai senza più idee originali. Se l’unico modo di aumentare la creatività per Dave è di ritornare ad assumere droga, verrebbe da dire ben venga, perché qui non c’è trippa per gatti. Da un marchio così consolidato ci si aspetterebbe molto di più!

Voto 65/100       

Luca Recordati

 

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