Recensione: Tales of Tragedy

Una storia travagliata, quella dei Call Of Charon. Nati nel 2006, giungono soltanto ora al traguardo del secondo full-length in carriera, “Tales of Tragedy“. In mezzo, infatti, scioglimenti, cambi di moniker, ripensamenti, problemi di salute e così via.
Della formazione originale è rimasto soltanto il cantante Patrick Kluge, anche se i suoi compagni di avventura sono con lui da circa dieci anni. Il che dà l’idea che, comunque, si sia trovata la quadra per una formazione in grado di competere professionalmente con gli altri act che praticano lo stesso genere.
Genere che altri non è che il deathcore. Circostanza che dimostra la predisposizione del combo teutonico agli adattamenti stilistici che sorgono spontanei via via che passano gli anni, preso atto che agli inizi degli anni duemila il deathcore stesso non era certamente popolare e diffuso così come lo è adesso.
Detto questo, l’esame del disco mostra una band in piena forza, compatta, coesa nel perseguire, in primis, l’obiettivo di dare alla luce uno stile personale. E così è. Ovviamente la fedele appartenenza a una tipologia musicale determina il fatto che se ne debbano seguire in toto i dettami natii, almeno i più importanti. Lo spazio per infilare qualcosa di proprio è quindi piuttosto ridotto ma malgrado ciò i Call Of Charon riescono a definire con esattezza la loro natura artistica.
Come da regola sono presenti i breakdown, fra le caratteristiche più tipiche delle matrici *-core. Tuttavia non ne viene fatto un grande uso, il che consente alla musica di uscire dagli speaker fluida e naturale, si potrebbe affermare addirittura istintiva. Come se giungesse dritta dritta dal cuore di Kluge e compagni. L’impatto frontale è importante, la botta si sente eccome, suffragata qualche stop’n’go che ne aumentano il peso specifico e da più d’un assalto al fulmicotone dettato dalla furia scardinatrice dei blast-beats (“Ocean Grave“).
Si tratta fondamentalmente di un deathcore che risente parecchio del death metal e, anche, del metalcore. In tal senso, cioè, la potenza è sì elevata ma consente di produrre un sound estremo ma senza esagerare in allucinati sconvolgimenti di decibel. E, di seguito, di mantenere un tocco melodico che, assieme a vari sottofondi ambient (“Suffer in Silence“), contribuiscono a definire un umore contrito, a tratti addirittura triste (“One More Day“), dalle tinte rosso-grigie.
Presenti pure alcuni frontman quali musicisti ospiti, che coadiuvano Kluge a disegnare delle linee vocali assai dure, scabre, purtuttavia leggibili se non altro nel loro ruotare armonioso attorno al nucleo musicale. Un risultato più che lusinghiero che induce le suddette linee ad avere un andamento non-lineare, lontano quindi da certa monotonia che si vede in giro.
La melodia, come detto, c’è, ma non è di quella catchy del melodic metalcore, per esempio. Si tratta la contrario di un supporto pur sempre piacevole da ascoltare che s’incastra alla perfezione nel substrato ove scorrono veloci le note, donando quel qualcosa in più che altrove manca. Difficile, quindi, rinvenire dei segmenti totalmente dissonanti, arcigni all’udito, complicati da assimilare. E questo, oltre che all’interpretazione di Kluge, grazie al lavoro delle chitarre. Massicce, granitiche in sede ritmica; morbide, delicate e ricche di raggi di sole, in quella solista, che bucano l’oscurità con una classe non da poco.
Da rilevare, nondimeno, la bravura tecnica di tutto l’ensemble tedesco, madre di un sound adulto, senza difetti, camaleontico nel recepire un songwriting variegato, che denota senz’altro la lunga esperienza nel campo da parte dell’ensemble medesimo. I brani, infatti, si differenziano bene gli uni dagli altri risultando, in più, relativamente facili da mandare a memoria. Con che l’insieme-canzoni è realmente piacevole da masticare per una facile digestione.
“Tales of Tragedy” è un’opera davvero onesta, che mostra la parte migliore dei Call Of Charon, e cioè quella di un’attitudine trasparente, pienamente immersa nel metal estremo così tanto amato.
Daniele “dani66” D’Adamo
