Recensione: Thanatos

Di Andrea Poletti - 27 Settembre 2016 - 3:14
Thanatos
Band: Aleph
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2016
Nazione:
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70

Thánatos (dal greco θάνατος, “Morte”)

Semplice e diretto, meno dici e più rimani impresso nella mente di molti, un titolo che non porta ad altre idee se non quello della morte, quale concept album, su cui giostrare questo terzo album dei nostri Alpeh, che diventa ad oggi un gigantesco punto interrogativo su quella che potrebbe essere la direzione futura. Ma andiamo con calma e parliamone senza affrettare il tutto. Gli Aleph arrivano da Bergamo e hanno preso lo slancio nell’underground del bel paese con il precedente “Seven Steps of Stone” targato oramai 2009; sette anni sono passati da quell’ultimo parto discografico e qualche mese fa come un fulmine a ciel sereno quattordici canzoni e un copertina tremendamente efficace si stagliano all’orizzonte. La domanda che nasce ancora prima di ascoltare una singola traccia è: “Dopo sette anni cosa è cambiato nel sound del gruppo?” Sostanzialmente nulla e questo credo sia la notizia bomba del giorno; riflettendoci bene se dopo sette anni un gruppo non cambia, riesce nel bene o nel male a mantenersi fedele al proprio stile compositivo credo che possa essere visto come un vanto, infatti i risultati si vedono sul lungo percorso. Certamente non è un copia e incolla di idee passate, ma lo stile e la personalità che risiede alle spalle dei nostri è ben salda nelle radici del gruppo.

Essendo di suo una musica così ostica da digerire, anche se può non sembrare, cercherò di semplificare il tutto descrivendo “Thanatos” quale un insieme di complessi di cambi di tempo lirici e musicali dove un gioco di contrasti spazia dai Moonspell dei tempi antichi, passando per i Celtic Frost di “Into the Pandemonium” fino a sfiorare lateralmente i Dimmu Borgir degli anni novanta. Tutto questo ribollire di sensazioni finiscono per infilarsi dentro strutture labirintiche che prendono possesso della scena senza mai far rifiatare e lasciare penetrare uno spiraglio di salvezza, anche la sola singola idea di speranza muore lentamente. La produzione grezza e arcigna porta alla luce quella sensazione di morte, come titolo suggerisce, che non riserva certamente carezze e positività a tout-court, anzi predilige il sadismo senza compromessi. Certamente  la medglia ha i suoi due lati e mixare differenti generi, come riscontrabile nelle tracce più lunghe e tortuose quali la prima ‘Snakesong’, ‘A Game of Chess’ o la ‘Titletrack’ da quasi dieci minuti, non porta ad una assimilazione facile ed intuitiva, ma funzianano bene o male. Prendiamo per esempio la seconda ‘The Old Master’ con gli stacchi continuati e le sezioni di tastiera che portano anche ricordi antichi di Old Man’s Child ed affini; l’intento di voler andare a stupire e soprendere l’ascoltato ogni secondo è palese e riscontrabile passaggio dopo passaggio. Certamente paragonare la riuscita di questo album a questa o quella band non è gratificante, ma come si suol dire, aver imparato dai maestri e personalizzare non è un compito che non riesce a molti, bisogna onorare anche tale aspetto. Lungo l’intera tracklist, si riescono a abbracciare momenti di calma interlocutoria, dove l’oscuro abbraccia la violenza per diventare furia cieca nei successi  cambi tempo e viceversa; un grande ipotetico maelstrom senza fine. Definire black-gothi-death-thrash l’interno svolgersi di “Thanatos” è assurdo poiché una bestia di questa entità prende e si plasma in qualsiasi momento senza rendere conto a nessuno; un abile gioco di maestria da parte dei nostri merita rispetto. Certamente non tutto è oro che luccica poiché, se come detto in precedenza dei validi spunti e delle intuizioni ben riuscite ci sono, alcuni stratagemmi non funzionano al meglio. Probabilmente alcune strutture necessitavano di meno arrangiamenti e più respiro, i continui passaggi inoltre di sicuro non giovano in ogni occasione alla riuscita dei brani, che soffrono in alcuni momenti di sovrabbondanza e prolissità accentuata. C’è inoltre da sottolineare che se i nostri avessero scremato le quattordici tracce su più uscite o eventualmente tagliando qualche episodio, la riuscita del disco avrebbe sicuramente preso uno slancio ulteriore, poiché il minutaggio spesso non consente una fruizione completa dell’intero lavoro ad ogni play premuto. Possono essere visti come dettagli quelli espressi, ma alla lunga sommando il tutto attraverso gli innumerevoli ascolti risultano più ostici che pregni di buone intenzioni. 

Se con questo fatidico terzo disco gli Aleph confermano il loro buon status di salute, che come già detto non muta ma plasma rispetto al passato, possiamo vedere come alcune pecche da migliorare possano essere limate attraverso il prossimo disco. Con l’augurio di non lasciare passare altri sette anni di astinenza, dato che il Tibet è troppo lontano, ci salutiamo applaudendo al metal Italiano perché ancora una volta ha dimostrato di avere grinta, coraggio e carattere da vendere; anche se “Thanatos” attraversa momenti di buio, qui di carne al fuoco ne ritroviamo parecchia e sprecarla nel dimenticatoio sarebbe un grave reato. Astenersi ben pensanti e conformisti.

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