Recensione: The 7th Seal

Di Stefano Ricetti - 27 Febbraio 2006 - 0:00
The 7th Seal
Band: Death SS
Etichetta:
Genere:
Anno: 2006
Nazione:
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87

Fin dal 24 novembre 2005, giorno del mio incontro con Steve Sylvester e Glenn Strange, rispettivamente vocalist e bassista dei Death SS, in occasione del pre ascolto dell’ultima fatica della band fiorentina, bramavo il momento di avere fra le mani questo Cd in versione definitiva. L’impressione che ebbi maturato mesi fa fu decisamente positiva, vuoi anche per il fatto che Mr. Death SS illustrasse aneddoti, ricordi e significati di ogni singolo brano. Il pezzo che più mi colpì fu la title track che puntualmente si erge al di sopra di tutto il resto degli altri pur validi pezzi, confermando i miei ricordi. Il titolo del nuovo disco è the Seventh Seal, ovvero il settimo sigillo, un’opera che il buon Steve aveva in cantiere, come idea, fin dal 1977, anno in cui iniziò in quel di Pesaro il suo cammino musicale in compagnia del chitarrista Paul Chain, altro personaggio storico dell’HM.

 

Il Settimo Sigillo è stato registrato a Los Angeles, dove il Nostro si è trattenuto per un mese a seguire tutte le fasi della realizzazione. Il tutto è stato curato dal produttore Fabrizio V.Zee Grossi, un italo americano che in passato ha collaborato con Glenn Hughes, Steve Vai, Steve Lukather, Jefferson Starship e molti altri.

Il primo brano del lotto è l’opener Give‘em Hell, l’inno ufficiale della Icw, la più famosa federazione italiana di Wrestling. L’impatto è violentissimo, le chitarre sono cattive e le atmosfere tipiche del metallo che va per la maggiore ai giorni nostri. La produzione, è potente e roboante, particolare che sta da sempre molto a cuore al lider maximo dei Death SS. Le scudisciate delle chitarre e della batteria evocano una delle tante mosse care ai cultori del Wrestling e provocano delle botte allo stomaco terrificanti. Il refrain è devastante e, con gli opportuni distinguo, anche orecchiabile e facilmente memorizzabile. La sensazione è che ancora una volta il buon Steve abbia colpito nel segno, precorrendo come al solito i tempi. Dopo l’ascolto di questa autentica mazzata metallica,  è la volta di Venus’ Gliph, brano arioso che acquista valenza grazie al sapiente uso delle tastiere di Oleg Smirnoff e al cantato luminoso da parte del singer. Quello che salta subito all’orecchio è la vena melodica che Steve Sylvester imprime al brano e, come leggerete poi, all’intero album. L’orecchiabilità del pezzo, senza mai scadere nel becero commerciale, è il leit motiv della struttura.

Lontani violini tratti da un vecchio disco di canti religiosi ebrei di inizio secolo, aprono Der Golem, episodio ben più massiccio che però non mi convince del tutto e che ritengo uno fra i meno ispirati dell’album, forse a causa della ripetitività del refrain, troppo “carico” per la partitura in oggetto, un esercizio vocale un po’ fuori dal coro rispetto al resto del lotto, che negli altri casi mantiene un livello di classe invidiabile, degno della tradizione perfezionista di scuola Death SS. Shock Treatment schiaccia l’occhio all’opener del disco, con dei cori da stadio (e da concerto) che sicuramente faranno sfracelli dal vivo. Absinthe, con i suoi inserti elettronici misti alla dolcezza del refrain si dimostra sufficientemente ruffiana, sempre e comunque senza mai uscire dai canoni malefici dei Death SS.

La traccia numero sei (Another Life) è indubbiamente uno degli highlight di the 7th Seal: una ballad misteriosa, sofferta e impenetrabile nella quale il duello fra la voce evocativa di Steve e le tastiere di Smirnoff raggiungono vette sublimi, un capolavoro che a tratti richiama alcune cose dei vecchi Savatage. Psychosect sembra un estratto da Panic: secco e diretto senza redenzione per l’ascoltatore, mentre Heck of a Day riporta i Nostri verso lidi tremendamente heavy classic, nonostante la voce effettata, grazie al riffing pesantissimo di Emil Bandera, molto vicino al Tony Iommi di sabbathiana memoria. S.i.a.g.f.o.m. parte cibernetica per poi rivelarsi invece melodica e accattivante in virtù di un chorus urlato e sofferto che definisco uno dei migliori mai inventati da Steve in tutta la sua carriera! Altro pezzo che innalza di molto il voto di questo the 7th Seal. Riff serrato iniziale, come ai vecchi tempi… ah,ah,ah! poi divagazioni moderniste e un refrain arrabbiato fanno da colonna portante a The Healer, episodio che non riesce a decollare nonostante l’ottima performance della sezione ritmica Strange/Simeone e il solo anni ottanta di Bandera.

Time to Kill è invece la continuazione naturale del discorso iniziato con album come Do What Thou Wilt e Humanomalies: Steve recitativo, chitarra stoppata e ritmi frammentati. Si chiude con gli oltre otto minuti della suite The 7th Seal: un brano che azzardo definire monumentale, dalla genesi antica, rimasto finora nella sapiente penna di Steve Sylvester, che finalmente in quest’occasione può uscire allo scoperto. Dopo la parte iniziale caratterizzata da antiche tastiere stile Savatage epoca Sarajevo e pianti sommessi di bambini il basso marcio di Strange consente di approdare al micidiale ritornello, che non lascia prigionieri: trasognato, soprannaturale ma soprattutto molto catchy. Appena dopo, finalmente, per la gioia di tutti i defender, quelli che amano alla follia album come Heavy Demons e In Death of SS, si arriva alla prima cavalcata metallica, dalla potenza antica e leggendaria, di quelle con l’inebriante profumo della Nwobhm addosso. Ciliegina sulla torta gli inserti di flauto e il solo di sax dell’ex Black Widow (si, proprio quelli del capolavoro Sacrifice, già recensito in passato su TrueMetal), Clive Jones, grande amico di Mr. Sylvester, posta alla fine della corsa della sei corde, costituendo una autentica chicca che meglio non poteva finire che un pezzo epocale come la title track di questo album.  

L’album non è di facile assimilazione, assolutamente! Cresce ascolto dopo ascolto e ogni volta si svela nei particolari: patrimonio che solo certi lavori possono vantare. Certo, dietro a episodi musicali maiuscoli vi sono anche dei pezzi meno riusciti, comunque assolutamente mai assimilabili a certi filler che ci dobbiamo sorbire da altre band straniere.                

In the Seventh Seal si possono ritrovare richiami a tutta la discografia dei Death SS, esattamente come vuole Mr. Sylvester: dagli esordi a Humanomalies, con particolare attenzione però all’ultimo corso della loro evoluzione. D’altronde bisogna essere onesti e realisti: i Death SS storici, quelli sulfurei, neri, egocentrici, litigiosi, spudorati, minacciosi, catacombali, pericolosissimi e misteriosi sono defunti anni fa. La nuova reincarnazione della band nasce per muovere le coscienze, così come fece alla fine degli anni settanta: quindi apertura a nuove sonorità, all’elettronica, alle tastiere, alle chitarre grasse e via di questo passo. Questo disco potrebbe anche essere l’ultimo della discografia ufficiale dei Death SS, il settimo e il definitivo. Stupire, stupire e ancora stupire, questo è il verbo che sta più a cuore a fiorentini: così come accadde per Panic (prima) e Humanomalies (dopo), quindi cambio del logo e utilizzo per la cover interna del disco della foto dell’Apocalisse del Cellini, statua residente sopra la cattedrale vaticana qui in Italia. Il fatto poi che altri gruppi (leggi gli Angra in Rebirth), l’abbiano già utilizzata per un loro disco, costituisce un particolare DEL TUTTO INSIGNIFICANTE: si tratta di un’opera pubblica non soggetta a nessun tipo di copyright, non di una scoperta originale della band brasiliana!       

Come sempre accade in occasione delle uscite discografiche del combo fiorentino, particolare attenzione viene riservata all’artwork e alla confezione del prodotto finito. The 7th Seal è disponibile nell’edizione normale, con il disco all’interno di un cofanetto in cartoncino raffigurante il patto con il sigillo e in limited edition (250 copie soltanto!) con il Cd all’interno di fine pergamena con tanto di ceralacca vera (per rompere fisicamente il sigillo…). Inoltre, udite udite, in doppio Lp con l’aggiunta di bonus track che uscirà a maggio 2006 per la Black Widow: ci sarà una versione completamente diversa della cover dei Gun “Race with the Devil”, già apparsa sul singolo di  Give ‘em Hell, comprendente lunghi assoli di chitarra e tastiera il tutto con mixaggio e arrangiamento tendente al progressive. Altro bonus la cover di The Four Horsemen, un brano del 1971 degli Aphrodite’s Child, originariamente compreso nel loro doppio Lp dal titolo 666. 

Death SS: se davvero questo sarà il disco finale del vostro sinistro cammino nelle nebbie del metallo… mi mancherete tantissimo!

Stefano “Steven Rich” Ricetti 

 

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