Recensione: The angel and the dark river

Di Ishgareth - 29 Luglio 2002 - 0:00
The angel and the dark river
Etichetta:
Genere:
Anno: 1995
Nazione:
Scopri tutti i dettagli dell'album
90

Correva il dicembre del 1994 quando i My Dying Bride iniziarono ad incidere “The Angel and the Dark River”, concentrato di melodie e tristezza d’altri tempi, di potenza e rabbia atavica. Credo sia giusto iniziare dicendo che, a mio avviso, ci sono stati pochi altri gruppi capaci di creare canzoni così ricche ed articolate come quelle presenti in questo lavoro, magistralmente suonate ed interpretate.

“The Cry of Mankind” , prima e splendida canzone dell’album, ci catapulta in un sanguinoso e tetro paesaggio, grazie al buon lavoro delle chitarre (ottimi sia l’assolo che i riff) e all’ottima prova del tastierista del combo inglese, capaci di ricamare, con dedizione certosina e con assoluta efficacia, linee melodiche semplici e al tempo stesso pregne di significato. Che dire della prova del buon vecchio Aaron? La sua prestazione è sconvolgente, incredibile, unica, forse la migliore che abbia mai proposto, in quanto non si limita a cantare, ma interpreta la triste litania, rendendo sempre più reale il senso di costrizione e sgomento che le musiche avevano dipinto. L’elemento che impreziosisce il brano è rappresentato dalla sua suddivisione in due sequenze, esprimenti stati d’animo contrapposti: mentre, infatti, la prima descrive con impeto l’evolversi dell’immane e terrena catastrofe, la seconda “tratta” dell’evento come se fosse già accaduto, sostituendo al tumulto dei sensi e alla tristezza una sensazione di pace, o meglio, di rassegnazione. Mi ha colpito molto il testo di questa canzone, che apre uno squarcio sulle condizioni in termini filosofici dell’esistenza dell’Uomo, essere che vive e muore senza speranza e sempre in solitudine.
“From darkest Skies” è invece introdotta da una triste e litanica melodia creata da basso e violino, cui si aggiunge la voce ”agonizzante” di Aaron, che ancora una volta riesce a stupire piacevolmente l’ascoltatore per la “tristezza” che trasmette col suo inno, incentrato sempre sulla solitudine dell’Uomo. Ciononostante la canzone non è assolutamente monotona, soprattutto grazie alle varie parti, ora più cadenzate, ora più veloci (relativamente parlando, in quanto parti realmente molto veloci non sono presenti, come è giusto, a mio giudizio, che sia) che si alternano e che dipingono sulfurei paesaggi, senza scadere mai, però, nella banalità. Siamo così rapiti dall’estasi della musica e ci troviamo, se chiudiamo gli occhi, a girovagare nel buio di una terra sconosciuta, da soli, quasi come se stessimo ruotando intorno ad un punto fisso, mentre fiumi, fatti di lacrime sempre più rosse, continuano a scorrere intorno a noi, sotto una pioggia incessante.
“Black Voyage” è la grandezza fatta musica, la tristezza fatta musica, il dolore fatto musica. Ancora una volta le chitarre riescono a tratteggiare uno scenario apocalittico, cupo e al tempo stesso maestoso, che si apre in un refrain dall’andamento accattivante, impreziosito da una stupenda melodia del violinista. Segue la parte più “evocativa” dell’album, grazie, ancora una volta, all’apporto del cantante, la cui voce sembra provenire da recessi oscuri dello spazio, imponendosi alle orecchie e alla mente dell’ascoltatore, e come in un circolo di vichiana memoria, sopraggiunge nuovamente il violino e il suo triste canto a portarci via dall’oscurità, verso un nuovo orizzonte lontano.
Un arpeggio di pianoforte apre “A Sea to Suffer in”, forse uno dei brani più claustrofobici fra quelli presenti nell’opera, che ancora una volta mette in evidenza l’interpretazione “agonizzante” del buon Aaron, con una soluzione stilistica sonora che ritroveremo, in parte, anche in alcuni lavori che seguiranno, come “Like Gods of the Sun”. Certo è che, se nella parte terminale del brano precedente si poteva “avvertire” un’ascesa verso nuovi cieli con l’allontanamento da situazioni opprimenti, con questa song siamo ricondotti di nuovo verso più grigie lande, senza alcuna speranza e senza alcuna luce che possa indicarci una nuova via di fuga.
Se “The Black Voyage” è la tristezza fatta musica, “Two Winters Only” è senza dubbio il dolore più intimo ed inaccessibile fatto musica. Le chitarre acustiche tratteggiano appena un panorama dai caratteri melanconici, quasi come se si stesse assistendo ad un review della propria esistenza, sapendo già di essere al capolinea della propria vita; eppure, in tutta questa malinconia, in tutto questo grigiore, i nostri riescono a trovare uno spazio per poter esprimere la loro rabbia, e posso garantirvi che il risultato è tutt’altro che “dissonante”, anzi, ancora una volta assistiamo ad un opposizione che impreziosisce sia l’una che l’altra sezione, e così queste due semplici ma efficaci parti si riflettono, scolpendo nella nostra mente immagini di altri tempi. Qualche parola, infine, anche per il testo, che con dolci parole descrive l’evento forse più funesto del vivere umano, la morte. “Gesù pianse così che l’uomo potesse vivere per sempre sulla Terra, in pace, ma le mie lacrime… esse cadono per te, solo per te”, sussurra Aaron ponendo fine ad uno fra le più belle liriche che abbia mai potuto leggere e noi non possiamo che unirci nel suo dolore.
Giungiamo al termine con “Your Shameful Heaven”, che completa il viaggio mistico in cui siamo stati guidati dai nostri. Il brano è di buona fattura, in parti anche veloce, offrendoci il gruppo sotto una luce molto diversa; mentre gli altri pezzi erano, infatti, chi più chi meno, correlabili alla tristezza, questo invece è emblema della rabbia e della potenza. Che il pezzo sia notevolmente differente dagli altri è certamente lampante: differente è l’approccio agli strumenti, soprattutto alle ritmiche, che si rincorrono in un vortice di energia inimmaginabile, ed è proprio per questo che l’ascolto ci lascia piacevolmente colpiti, perché testimonia che i nostri (dal vocalist al batterista, nessuno escluso!) sono veramente molto bravi anche su “terreni” non più “propri” e che ricordano da vicino il loro passato per alcune soluzioni stilistiche.

Il mio giudizio finale è buono, anzi ottimo, come detto all’inizio, sono veramente molto poche le band che con semplicità relativa riescono a sfornare un lavoro che, a mio dire, è completo e soprattutto “stimolante”, con testi sempre molto buoni e soprattutto intrisi di sana e malinconica poesia. Insomma, per gli appassionati del dark e per i nuovi adepti un lavoro da avere senza remore alcune; per i curiosi, un album da comprare e da assimilare poco a poco, per poter intraprendere, coi nostri, un viaggio verso nuovi e sconosciuti lidi.

Tracklist:
01 The cry of mankind (12:13)
02 From darkest skies (7:47)
03 Black voyage (9:46)
04 A sea to suffer in (6:30)
05 Two winters only (9:00)
06 Your shameful heaven (6:58)

Ultimi album di My Dying Bride

Genere: Doom  Gothic 
Anno: 2020
80
Genere: Doom 
Anno: 2015
70
Genere:
Anno: 2013
72
Genere:
Anno: 2011
75
Genere:
Anno: 2009
70