Recensione: The Book Of Souls

Di Eric Nicodemo - 4 Settembre 2015 - 8:00
The Book Of Souls
Band: Iron Maiden
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2015
Nazione:
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65

Ci sono band che scandiscono con la loro immensa discografia il corso del tempo e, per qualcuno, anche quello della propria vita. Gli Iron Maiden, da sempre al centro della cronaca giornalistica hard’n’heavy, rappresentano, almeno per il sottoscritto, quanto esposto. I famigerati “Early Years” di questi campioni UK sono ormai lontani, persi nelle fumose ed annerite strade dei sobborghi londinesi.

Ora, raggiunto lo status di metal stardom, l’iperattività di Steve Harris e compagni sembra inesauribile, soprattutto in sede live, dove gli Irons tuttora hanno pochi rivali (cosa resa ancora più incredibile dalla loro non più giovane età). Se, da una parte, pure i detrattori devono ammettere che i Maiden rimangono veri e propri assi del palcoscenico, dall’altra, la recente carriera in studio è un saliscendi di momenti più o meno ispirati (con una netta preponderanza dei secondi). Ed eccoci giunti al nuovo episodio di questa interminabile saga, questo famigerato “The Book Of Souls”.

Famigerato perché i Nostri hanno osato mettere alla prova la resistenza dell’audience maideniano oltre ogni limite, con canzoni della durata media di sette minuti sulla linea intrapresa dallo scialbo “A Matter Of Life And Death” e “The Final Frontier”, questa volta addirittura azzardando i più lunghi brani del loro curriculum. Sia chiaro: gli Irons non sono diventati e non diventeranno mai un gruppo prog-metal ma hanno solo reso ancora più intricati i propri brani con lunghe escursioni chitarristiche e cambi di tempo a iosa. Dunque, non fraintendete l’intro onirico di “If Eternity Should Fail”, deserto sonoro dominato solo dai synts spettrali e dal lirismo dickinsoniano. Presto, esplodono gli epici vibrati della scuola più imitata della storia, assieme alle cavalcate più emulate nel panorama Metal. Il refrain vibra di memorie recenti (“Brave New World”) e lontane visioni (“Seventh Son Of A Seventh Son”, “Powerslave”). Classica canzone che non può esimersi dalle scorribande chitarristiche Iron Maiden, con l’irrinunciabile basso in evidenza.

Diversamente, “Speed Of Light” ruggisce e si lancia nella foga con il vecchio (giusto) cipiglio. Bruce Bruce, scortato da una ritmica infuocata, eredità dei padri Deep Purple e UFO, mantiene tutta la sua verve di mattatore heavy metal. Tuttavia, la nitro che proietta “Speed Of Light” alla velocità della luce (o, se preferite, del suono) è il duello del guitar play, una gabbia dove far convivere frenesia e tonalità azzeccate, senza eccedere nel riciclo.

Curioso il video di “Speed Of Light” che promuove canzone e relativo videogioco, in cui Eddie intraprenderà un’avventura ricca di riferimenti tratti dall’iconografia maideniana (dove il nostro Zombie preferito decapita con una fatality La Bestia di “The Number Of The Beast”).

Ironia della sorte ma proprio un video così pacchiano e commerciale dimostra che la Vergine di Ferro, come tutti i matusa del rock, non può sfuggire al proprio passato: i suoni di “The Great Unknow” riecheggiano gli Eighties e gli esordi anni Novanta (“Fear Of The Dark”). Rispetto a “Speed Of Light”, la corsa muta in una marcia che si infiamma nel chorus. Per uscire da questo anonimato, si alternano cambi di tempi, parti più concitate e finali misteriosi, con la voce di Dickinson che scivola via come la sabbia trasportata dal vento. Un brano che, come suggerisce il titolo, rimarrà un pezzo sconosciuto in mezzo ad altre innumerevoli canzoni prive d’identità.

Sebbene siamo ancora all’inizio di questo tour de force, la prossima tappa è uno dei brani più lunghi della veneranda carriera di Steve & Co. ovvero “The Red And The Black”. Il titolo della canzone trae ispirazione dal simbolismo (“il rosso e il nero” ovvero la passione e la morte) e riassume il desiderio dei Nostri di staccarsi dal gioco “riff-refrain-assolo”, preferendo divagazioni più ricercate (o presunte tali).

La dice lunga l’inusuale incipit acustico con cui si apre la song, un tocco ombroso per esentare il leitmotiv dal dispotismo delle solite cavalcate. Con perfetto tempismo, la chitarra emerge come fedele compagna della teatralità operistica di Dickinson. Il groove che si sviluppa da la giusta rotta alla canzone. Sì, i vocals di contorno non sono accorgimenti geniali ma la sezione centrale si salva da evidenti déjà-vu, mostrando una fucina di riff vivaci e ben costruiti. Un pezzo che ho apprezzato, pur mancando di un vero e proprio refrain che si incastri nel cervello, da qualche parte nel nostro piece of mind.

Tutto finito?

Risposta negativa perché i Maiden danno sfogo ad una jam session ricca di impressioni, un caleidoscopio che miscela assoli evocativi, vezzi solistici e sconquassanti ritmiche vecchia scuola (direttamente dai gloriosi esordi). In questo rogo da wicker man, si apprezzano i pattern più magniloquenti e drammatici in chiusura.

Nel guazzabuglio generale, “When The River Runs Deep” è il tipico corollario di una carriera, infarcito di fughe e monologhi chitarristici. Per spezzare il ritmo di una formula collaudata, aggiungete due mid-tempos: refrain cadenzato, condotto dalla consueta teatralità di Bruce, e rallentamenti regali nel bridge della sei corde. Prolisso e discretamente vario, “When The River Runs Deep” manca di quel tocco memorabile che lo renda un brano tale da sopravvivere a più ascolti.

 

Progster si nasce, non si diventa…

 

Se pensate che i pruriti da pseudo-progsters siano svaniti e che il platter scorra con un minutaggio canonico, vi è sfuggito il significato di libro (inteso come tomo) presente nel titolo. E di certo non si può definire un libello un disco che propone capitoli come la title track, “The Book Of Souls”.  Chitarre imperiose e lirismo sofferto è quanto ci offre la title track, con un bravo Dickinson dalle tonalità risapute. A metà brano, riuscirete perfettamente a prevedere la trama della storia, che si dipana attraverso epici viaggi in cerca della verità, lungo highways soliste veloci, contorte e duelli all’ultimo assolo di buona fattura. Il tutto per la modica (?!) durata di oltre dieci minuti.

Tiriamo un sospiro di sollievo con la belligerante “Death Or Glory”, scossoni old style che se non stupiscono almeno ci risparmiano brani pachidermici. Dopotutto, la vera forza di una canzone di questo stampo è quello di non perdersi in un mare di note, per arrivare al sodo con lick chitarristici diretti e avvincenti, sfondo delle imprese aeree vissute dal Barone Rosso (temi, quello dello scenario guerresco e del combattimento aereo, cari ai Nostri fin dai tempi di “Where Eagles Dare” e “Aces High”). Meno ricercata di una “The Red And The Black” ma più vicina allo spirito originale.

Comunque, chi si lamentava dell’ “easy riff” di “Can I Play With Madness” o della monotonia heavy rock di “Holy Smoke” (che qui sarebbe la benvenuta!), non deve preoccuparsi: dopo una boccata d’aria offerta da “Death Or Glory”, ritorniamo ad un minutaggio corposo con “Shadows Of The Valley”, incedente quest song marchiata dal guitar play corale, che sfocia in baldanzosi rimandi al folk-rock e sfoggia un dualismo chitarristico come anatema contro la noia (causata dal ritornello copia carbone).

La preferenza di un brano spiccio come “Death Or Glory” non deve essere fraintesa: gli Iron Maiden non sono solo riff arrembanti e voci potenti ma anche una band che ha dimostrato profondità e varietà uniche nei testi, toccando temi sfaccettati. In questo senso, “Tears Of A Clown” è una canzone Iron Maiden dentro (il significato) e fuori (la musica), che scava nell’intricata psiche umana, dove un sorriso può nascondere insopportabili dolori. Dolori ed angosce che l’attore Robin Williams, soggetto di questa canzone, celava nel suo cuore. Il mood di “Tears Of A Clown” è passionale, scosso da una ritmica decisa e irrequieta come un uomo tormentato. In luce ancora il ruolo della chitarra, capace di regalare alcune sorprese, a differenza di un ritornello carente d’impatto.

Il tema della sofferenza e della tristezza ritorna nella cangevole “The Man Of Sorrows”. Canzone mutevole, che si trascina a rilento per poi ergersi con un accorato rifferema. Lo stesso tune centrale si evolve mentre le linee del ritornello rimangono piatte e poco entusiasmanti.

La vena di cercare arrangiamenti ad ampio respiro raggiunge l’apice nella sinfonica “Empire Of The Clouds”, introdotta dal connubio piano-chitarra-archi. Il reame della nuvole prende forma attraverso le parole altere di Dickinson, che conferisce toni stentorei e marziali alla canzone. Per l’ennesima volta i ritornelli sono poco consistenti quasi come le nuvole del nostro paesaggio fantastico. Da qui in poi dovrete soffrire: una lunga catena di assoli si susseguirà, dal picchiare grave di Nicko al guitar work, disperso in una sfiancante maratona solistica.

Solo le accelerazioni cavalcate dall’air raid siren possono scrollarci dalla catatonia, giusto il tempo per riaffiorare nel tune principale.

 

Dimmi cosa suoni e ti dirò cosa non sei…

 

La closer sintetizza il problema che affligge “The Book Of Souls”: appare evidente che i Maiden abbiano allungato il brodo per uscire dallo stallo creativo, creando un album di difficile digestione (o dovrei dire da congestione). Sembra che la quantità abbia scalzato il concetto di qualità e questo lascia perplessi visto che una “Speed Of Light” fa il proprio lavoro molto meglio di una pomposa suite di oltre diciotto minuti. E’ difficile da pensare che questo album sarà oggetto di iterati ascolti a distanza di anni e, anche dopo più sforzi, un lavoro tale è destinato al dimenticatoio.

Allo stesso modo viene da chiedersi quale sarà l’effettiva longevità in sede live di queste canzoni: pare improbabile che tali song verranno proposte al di là del tour di “The Book Of Souls”, considerando anche solo il fatto che le track più corpose potrebbero occupare buona parte della scaletta a discapito dei vecchi classici. Cosa che i fan non tollereranno.

E’ matematico che il nuovo parto di casa Maiden piacerà a pochi e non convincerà appieno nessuno. Personalmente, ho apprezzato solo in parte queste aperture, che fanno perdere di vista la vera essenza degli Irons forgiata negli Ottanta, quando una canzone di pochi minuti era ricca di idee ed emozionava di più di questa sea of madness.

In questo “delirio” di note le buone intuizioni si perdono o vengono diluite, intuizioni (“The Red And The Black”, “Tears Of A Clown”) che assieme a qualche gradito episodio (“Speed Of Light”, “Death Or Glory”) consentono di guadagnare la sufficienza alla nuova opera.

Un plauso in particolare merita la voce di Bruce, che dopo anni (e il recente tumore) mantiene intatta la formidabile carica da screamer (sebbene, in alcune liriche vuote e scontate, manchino i picchi espressivi raggiunti in pezzi quali “Flight Of Icarus” o “Alexander The Great”, tanto per fare qualche esempio).

Ma allora a chi è destinato un prodotto del genere? Forse ai devoti della Vergine? No, o almeno non a tutti. E’, dunque, un platter dedicato ai più incalliti progster? Neanche perché non c’è nessuna traccia di vero prog. “The Book Of Souls” non è nemmeno adatto a chi, come il sottoscritto, reputa gli Iron Maiden uno dei propri complessi preferiti e per giunta ascolta prog settantiano da tempo.

Questo lavoro è diretto solo ad un tipo di ascoltatori ovvero agli irriducibili completisti dell’epopea Maiden, desiderosi di ogni amenità firmata Harris & Soci. A questi e a nessun altro è destinato questo album.

Eric Nicodemo

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